Giovedì su questo giornale Michele Prospero ha scritto della necessità di creare una grande coalizione «costituzionale» che, sulla base di un programma minimo, includa la sinistra, il Pd e il Polo della Nazione. Ieri Pierluigi Bersani ha forzato il ragionamento dicendo che, pur di costruire un'alleanza così larga, si potrebbe anche rinunciare a tenere le primarie. E' già cominciato su Repubblica il refrain a favore di questo schema: bisogna essere realisti, rinunciare alla propria identità e ingoiare il boccone amaro. Cerchiamo allora di essere realisti.
La sconfitta del 2008 è stata la più grave della Seconda repubblica: nessuno aveva mai perso con 9,2 punti di scarto contro un Berlusconi che dal 1996 prende sempre lo stesso numero di voti assoluti. Secondo le indagini del consorzio di ricerche Itanes, la differenza tra le due coalizioni era dovuta a due fattori: 2.200.000 elettori di centrosinistra che avevano deciso di non votare e poco meno di un milione che invece erano passati al centrodestra.
Chi erano questi elettori ed elettrici? Secondo Lorenzo De Sio dell'Istituto Universitario Europeo, i nuovi astensionisti (ne parliamo al maschile perché prevalentemente uomini) erano soprattutto persone con un elevato livello di studi, che vivevano nei grandi centri urbani, nati dopo il 1965 e si interessavano molto di politica. Perché non erano andati a votare? Scarso senso di efficacia della politica e sfiducia verso i partiti; giudizio critico sul governo Prodi; antiberlusconismo; scarsa fiducia in Veltroni soprattutto per la capacità di «capire i problemi della gente comune». La seconda categoria erano invece le elettrici (e qui vale il femminile perché prevalentemente donne) che erano passate dal centrosinistra al centrodestra. Su queste elettrici «marginali» ha scritto Domenico Fruncillo dell'Università di Salerno: si tratta soprattutto di donne «precarie» o che lavorano nell'economia informale, con bassi livelli di istruzione e fuori dalle aree più dinamiche del Paese. Sempre secondo Fruncillo l'area del paese più mobile elettoralmente è il Sud: è in Campania, Sicilia o Puglia che si giocherà una parte importante del risultato elettorale, soprattutto per il senato.
Sono queste due categorie di elettori - gli astensionisti «militanti» e le elettrici «marginali» - che potrebbero decidere il risultato delle prossime elezioni. Sono loro il vero «centro» da conquistare attraverso tre fattori: candidature credibili, una nuova strategia di mobilitazione, efficacia della politica.
Le primarie di coalizione sarebbero uno strumento (certo non l'unico) per rispondere alle prime due esigenze. Una parte di Italia alla quale bisognerebbe chiedere non solo di tracciare una croce sulla scheda ma anche di lavorare alla campagna elettorale. Le campagne del XXI secolo si vincono anche con la capacità di un leader di ispirare vaste reti di militanti, i quali devono avere la possibilità di partecipare e di organizzarsi orizzontalmente. Per vincere contro la corazzata berlusconiana serviranno milioni di persone che si muoveranno nel mondo reale, bussando alle porte, parlando con i propri amici, convincendo i propri parenti e colleghi.
La proposta di «coalizione costituzionale» risponde a questi problemi? E abbandonare le primarie è la strada giusta per costruire tutto questo?
Non crediamo che le primarie siano un bene in sé, anzi. Ma per sostituirle oggi - qui e ora - servirebbero dei partiti «veri» (strutturati per quest'epoca, non per un passato mitico), che non esistono e non si inventano in tre mesi. Una lunga linea rossa lega il «partito leggero» di Occhetto anni '90 al «partito liquido» di Veltroni 2008 a quello «elastico» di Bersani 2010. Seguendo questa linea, piaccia o no, l'unico strumento di mobilitazione per le elezioni sono le primarie, soprattutto in previsione di una campagna elettorale di Berlusconi che sarà ferocissima, all'americana: nel senso di Sarah Palin e Glenn Beck, quelli che raccontano che Obama è un immigrato musulmano.
Il rischio è che come al solito si cerchi di sopperire alle debolezze dei propri partiti aggregandone altri, con l'illusione che gli elettori seguano i simboli e i leader. Non sempre è così. Anzi, a proposito di mobilità degli elettori: forse un elettore deluso da Berlusconi è più possibile che voti per il «Terzo Polo» se questo non è alleato del Pd.
C'è infine un terzo elemento: ricostruire l'efficacia della politica. E qui di nuovo i veri realisti devono confrontarsi con la realtà: spetta alla politica decidere a chi far pagare la crisi e quanto riformare il sistema che ha portato alla recessione. C'è la strada irlandese (colpire i più poveri pur di non aumentare le tasse alle imprese) e c'è per esempio quella formulata da Stefano Fassina del Pd: spostare il carico fiscale dal lavoro alle rendite, precariato più costoso per le aziende, incentivi all' economia sostenibile. La crisi dovrebbe essere l'opportunità per riformare l'economia, abbattere le disuguaglianze e la precarietà, ridurre l'economia informale e la disoccupazione di massa al Sud. Sarà difficile uscirne senza affrontare questi problemi.
* italia2013.org