CULTURA & VISIONI

Pagine radicali oltre l'ortodossia

ANNIVERSARI I cinquanta anni della New Left Review
CASTELLINA LUCIANA,

Gli anniversari sono sempre occasione di riflessione, tanto più nel caso del cinquantesimo, festeggiato l'8 dicembre, della «New Left Review» , un non secondario fratello maggiore de «Il Manifesto». Era nata dieci anni prima di noi, quando in Inghilterra stavano «emergendo - come scrive la sua attuale direttrice, Susan Watkins - una miriade di segnali di rinnovamento della sinistra», in termini non solo di dibattito teorico marxista ma anche di concreti movimenti di lotta (è allora che viene alla ribalta il nuovo pacifismo, il «Committee for Nuclear Desarmement») e anche dagli Stati Uniti arriva lo stimolo delle inedite analisi sulla emergente società dei consumi. È l'inizio dei «favolosi anni '60», quando anche in altri paesi europei e segnatamente in Italia, pur in contesti diversissimi, ha inizio una stagione ricchissima che prepara il '68, niente affatto - ovunque - esplosione spontanea, ma frutto della lunga accumulazione politico-culturale di quel decennio.
La rivista era nata dall'incontro fra due precedenti pubblicazioni, di diversa tradizione (e espressione di due diverse generazioni) :il «New Reasoner», il vecchio mensile animato dagli storici comunisti non ortodossi ( Thompson, Hobsbawm e altri) e la studentesca «Universities and Left Review».

Un personale un po' politico
L'incontro - scrive nel numero dedicato al cinquantesimo il suo primo direttore, Stuart Hall (poi fondatore del centro dei «Cultural and postcolonial studies» di Birmimgham) - si fa sulla consapevolezza che occorre considerare non solo il conflitto di classe, ma anche la dimensione culturale, contro una definizione riduttiva ed economicista della politica («non era ancora il personale è politico del futuro femminismo, ma una riflessione che gli apre le porte», scrive Hall); la presa d'atto dell'emergere di una pluralità di nuovi soggetti potenzialmente rivoluzionari, risultato delle nuove contraddizioni della società capitalista; il fastidio per la schematica contrapposizione fra riforme e rivoluzione; la scoperta di molti possibili marxismi attraverso la lettura dei testi meno classici di Marx dove si affronta il tema dell'alienazione e l'arrivo, sia pure ancora lento, di nuovi autori: Lukacs, Benjamin, Adorno, soprattutto, via via che viene tradotto, Gramsci.
In sostanza - scrive Hall - il problema era per noi capire e dimostrare che una prospettiva di rinnovamento della sinistra poteva darsi solo in quanto si cominciasse da una analisi radicalmente nuova delle relazioni sociali e delle dinamiche del capitalismo post-bellico, rifiutando ambedue le deprimenti esperienze del socialismo reale: quella sovietica e quella socialdemocratica. Il punto di partenza è un libro rimasto famoso, edito da Edward Thompson, Out of Apathy, che invoca la necessità «di uscire dalle convenzioni entro cui la nostra vita è confinata. E perciò fuori dalla Nato, dall'economia mista, dall'etica stabilita. C'è bisogno di una buona dose di iconoclastia».
Ma il tratto caratterizzante della «New Left Review» è l'urgenza dell'azione: la rivista non vuole essere (e sin dall'inizio si impegna a non esserlo, animando decine di circoli militanti) solo l'espressione di un gruppo di intellettuali, ma lo strumento di un movimento organizzato, che opera in and out i partiti esistenti, in particolare il partito laburista che resta il centro dell'attenzione della sinistra britannica.
Le similitudini con quanto muove la nascita de «Il manifesto», come rivista e poi giornale e forza organizzata, sono evidenti. Nonostante il provincialismo dell'Italia dell'epoca della NLR, a noi allora «ingraiani», ci arriva notizia. Da «France Observateur» di Claude Bourdet (che poi sfocia nella creazione di una formazione di sinistra socialista, il Psu); ed è sempre la Francia che veicola il primo incontro fra noi: è dopo aver letto, nel 1963, sulla rivista di Sartre «Temps Moderns», un lungo saggio sul neocapitalismo di Lucio Magri che il nuovo direttore della «New Left», Perry Anderson, va a bussare alla sua porta a Botteghe Oscure per stabilire un contatto.
Molte cose sono cambiate in questi cinquant'anni nella «New Left Review» (come del resto in questi quaranta di Manifesto). La speranza di suscitare un nuovo movimento di sinistra cade anzi in Inghilterra assai prima che da noi. Nel 2000, nel riprendere la direzione della rivista, dopo la lunga fase di Robin Blakbourn, Perry Anderson scrive, riferendosi agli effetti che in tutto il mondo ha avuto la controffensiva liberista: «è la prima volta che non c'è una opposizione significativa».

Rotture generazionali
«Nel primo numero della NLR costruire una nuova sinistra era un progetto concreto e immediato - scrive nell'editoriale dedicato al cinquantesimo Susan Watson - oggi è piuttosto l'obiettivo di una long dureé». Ma Susan non ne trae motivo di resa. Scrive di una nuova leva di intellettuali marxisti nati dopo il '60 e addirittura il '70, attivi in ogni parte del mondo (cui NLR ha aperto le sue pagine, una delle poche riviste che dà conto di quanto si pensa in Cina o in India). Certo, ammette, «la rottura generazionale è oggi anche più profonda di ieri, sopratutto perché i più giovani hanno vissuto nel contesto di una cultura più spoliticizzata, strutturata dal mercato e mediata, per il meglio e per il peggio, da forme di socialità elettroniche. Ondate di protesta ci sono ma effimere e sempre sconfitte. L'università deriva i suoi programmi di ricerca dai meschini interessi dei dominanti. Un marxismo accademico neutralizzato rischia di essere un riflesso di queste tendenze». Il merito della NLR - conclude, ed è vero - è di essere estranea a queste tendenze, di collocarsi fuori da questo grigio contesto. Ma non a caso il suo saggio, che ripercorre l'itinerario della rivista in questi cinquant'anni, soffermandosi molto sulle nuove caratteristiche di questa ultima fase, termina con un interrogativo inquietante, lo stesso, in definitiva, che si pone a il Manifesto: «Può un progetto intellettuale di sinistra sperare di avere successo in assenza di un movimento politico? Questo anche per noi resta da verificare. Ma nel frattempo - dice Susan - abbiamo un bel po' di cose da fare».

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