CULTURA & VISIONI

Lo spettatore e la doppia opera

DEL DRAGO ELENA,RIVOLI

Una macchina espositiva in cui lo spazio, le opere e le didascalie, in stretta connessione, sappiano irretire il visitatore, farlo dubitare del proprio sguardo, richiedere la sua attenzione, farlo tornare sui suoi passi ed eventualmente guidarlo nella giusta direzione. Exhibition/ exhibition, curata da Adam Carr al Castello di Rivoli (fino al 9 gennaio 2011), vuole tentare l'azzardo, provato a più riprese durante il Novecento, da alcune avanguardie, da Marcel Duchamp, da Marcel Brothaers, e da diversi altri artisti, di rompere i confini imposti dalla prassi espositiva tradizionale. A questo scopo contribuiscono naturalmente gli artisti, ma anche la suddivisione del percorso espositivo in due estesi capitoli: il primo sottolineato dal colore blu, il secondo dal rosso, aiutano chi guarda a non perdersi in uno sdoppiamento che, per una volta, non è soltanto teorico: le opere, infatti, si trovano esposte, una, due, tre volte, con delle leggere variazioni oppure identiche.
La palla così passa davvero allo spettatore, da tempo chiamato in causa dall'artista che lo ritiene elemento imprescindibile per la conclusione di un processo, ma che, in questo percorso guidato da didascalie con frecce, è davvero protagonista di una scelta di campo. E lui/lei, infatti, che deve scegliere di stare al gioco e dunque, cercare il doppio dell'opera esposta, oppure la sua versione corretta, o ancora una copia appena difforme per un particolare, rintracciare le differenze, e scoprire la trama che gli artisti sembrano tessere tra di loro. Come Carsten Holler e Maurizio Cattelan, e allora il doppio è sinonimo di furto, operato in questo caso dal secondo «ai danni» del primo. E così l'autoritratto di spalle e allo specchio dell'artista tedesco, viene esposto e firmato da Cattelan, parte di una mostra che fu copiata a Parigi in ogni dettaglio, persino nella lista dei prezzi. Ad essere evidente in questo complesso meccanismo è l'attitudine post ideologica della gran parte degli autori contemporanei presenti, che guardano al concettuale con abbastanza ironia da cancellare qualsiasi traccia di dogmatismo, da farne materia di divertiti rimandi. È interessante, in questa prospettiva, il video di Dan Rees, artista britannico, che mostra due partite di tennis contro altrettanti artisti di derivazione concettuale, Simon Starling e Jonathan Monk. E se l'ispirazione la deve ad Alighiero Boetti, vero nume tutelare di questa mostra, e ad alcuni suoi pannelli luminosi che mostravano, alternati, la scritta ping pong, la scelta di questo sport così «semplice, quietamente intelligente ed elegantemente controllato», la dice lunga sulla capacità di utilizzare qualsiasi elemento culturale per significare, comunicare, qualcosa di immediatamente comprensibile dagli spettatori. Qualche tempo fa questa tendenza è stata definita «Post-produzione» (da Nicolas Bourriaud) , e visitando questa esposizione non si può fare a meno di ritenerla estremamente calzante. Lo stesso Jonathan Monk, inglese, ma residente da anni a Berlino, giocatore di ping pong nel video, ingaggia una partita con il celebre pittore David Hockney, usando un suo dipinto, tra i più simbolici e facilmente riconoscibili, come fosse una piattaforma enigmistica. E dunque ecco una villa sullo sfondo e una piscina in primo piano, c' è la vetrata, il trampolino, la palma, ma manca il tuffatore, colto nella sua assenza, prima e dopo il tuffo, ma è sempre alla buona volontà del visitatore il compito di trovare la differenza.
Lo stesso visitatore che si troverà anche di fronte ad autori importanti, nella loro versione originale, artisti che si sono confrontati con l'idea del doppio, da prospettive assolutamente differenti. C'è Andy Warhol naturalmente, che ha incorporato nella sua produzione, notoriamente in serie, l'idea della moltiplicazione dell'opera d'arte, Michelangelo Pistoletto, con i suoi specchi e la loro possibilità di riflettere la dimensione temporale, in questo caso collocati in fondo a Cinque Pozzi, lavori appartenenti alla serie degli «oggetti in meno» elaborata negli anni Sessanta, oppure Giulio Paolini che ha deciso di presentare un'opera che aprisse e una che, invece, chiudesse il percorso espositivo. Accanto al suo primo lavoro, del 1960, intitolato Disegno geometrico, ne ha creata una copia Dopo Tutto che, datata con il giorno dell'inaugurazione della mostra, come sempre riesce a riflettere sullo stato dell'opera d'arte, ma anche sull'essere artista rispetto allo scorrere del tempo. E il tempo è protagonista assoluto del lavoro di On Kawara, che dal 1966 dipinge un quadro ogni ventiquattro ore con la data del giorno in cui è prodotto e lo fa entro mezzanotte, altrimenti la tela in fieri viene distrutta. Raramente ne ha dipinte due, che non potevano non comparire in questa mostra e dunque, a giusta distanza l'una dall'altra, ecco una testimonianza pittorica e tautologica del 18 Novembre 1969.

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