INTERNAZIONALE

Se la fine del regime arriva in sordina

PYONGYANG
ZAMPA PIER LUIGI,

Il congresso di partito organizzato in Corea del Nord per delineare una successione dinastica al vertice, imperniato sulla figura sempre più diafana di Kim Jong-il, non sembra discostarsi molto dalla scenografia delle periodiche teatralità di regime, l'unico a riservare ancora ai suoi militari il cupo rituale del passo dell'oca. Se lo sfondo non cambia, dietro le quinte c'è un elemento fondamentale di novità.
Alla clessidra della malferma salute del leader supremo (mai apparso ristabilito da un grave malore subito nell'estate 2008) si è aggiunto un altro conto alla rovescia: quello della pazienza americana. La Corea del Nord è l'unico avversario degli Usa a non avere minimamente risposto ai gesti di apertura fatti da Obama per marcare uno spartiacque con l'era Bush. Nonostante difficoltà assai maggiori del previsto, il presidente americano è riuscito ad avviare processi evolutivi in Iraq e in Afghanistan, e a rilanciare il dialogo in medio Oriente.
L'unico sviluppo di rilievo nell'Asia nordorientale è stato invece l'estemporaneo affondamento di una motovedetta sudcoreana con cui lo scorso marzo le gerarchie militari di Pyongyang sono parse voler silurare qualsiasi tentativo internazionale di rilanciare i colloqui di pace a sei su un disinnesco della minaccia nucleare nordcoreana. Washington non ha reagito con particolare enfasi all'affondamento del Cheonan, ma da allora in poi è parsa sempre più urtata dall'attendismo cinese nel garantire un definitivo ingaggio della Corea del Nord sulla strada della pace. Nel contempo la sintonia Usa-Cina non è sembrata favorita dall'acuirsi delle crescenti rivalità economiche (lo stallo su una rivalutazione dello yuan ha finito per irritare gli americani, che per snellire il loro debito si sono infine lanciati a battere moneta su ampia scala).
Da ultimo, sul piano strategico, Washington non ha esitato a ricordare discretamente a tutta la regione (avversari come alleati) il ruolo imprescindibile che continuerà ad avere la sua presenza militare ad Okinawa. In caso di crisi - è stato fatto presente a Pechino come a Tokyo, a Seoul come a Pyongyang - i marines della base di Futenma sono pronti a intervenire nel giro di ore per una decisiva «disinfestazione» degli impianti nucleari e missilistici nordcoreani. E, con ogni probabilità, è proprio questa messa in guardia che nei mesi scorsi è stata al centro dei colloqui fra Kim Jong-il e i dirigenti cinesi. Per decenni la dittatura nordcoreana è sopravvissuta proiettando un'immagine spettrale su un quadrivio della storia e giocando su un complesso contesto di rivalità. Ma sono orizzonti strettamente legati alla dinastia dei Kim, e per il suo più giovane e inesperto rampollo, Jung-un, diventerà quanto mai arduo ereditare appieno lo stalinismo del nonno Il-sung. Il tempo incalza e nessuno, tanto meno Jong-il, può prevedere la tenuta di una reggenza dopo la sua morte.
E nel frattempo anche gli orizzonti geopolitici continuano a restringersi: gli altri cinque protagonisti del dialogo regionale (Usa, Cina, Russia, Giappone e Corea del Sud) potrebbero essere infine tentati di gettare la spugna dinanzi a un'irrisolvibile contraddizione fra le loro speranze diplomatiche e la «filosofia del peggio» su cui è fondato il regime di Pyongyang. Specularmente, nonostante tutti gli sforzi di Kim e il congresso che ha ultimamente allestito, anche per lui c'è un'insormontabile contraddizione, l'impossibilità di gestire su base collegiale l'arte rischiosa e solitaria del ricatto internazionale.
Nonostante la perdurante importanza delle rivalità e delle poste in gioco, il futuro non può garantire indefinitamente i compromessi prevalsi dalla fine della seconda guerra mondiale: qualsiasi gesto mal calcolato o eccessiva sfasatura potrebbe far debordare il disagio degli alleati e indurli a un «intervento stabilizzante» manu militari.
Se gli esperti statunitensi dell'Asia nordorientale continuano a preconizzare misure politiche per far fronte a eventuali crisi, c'è però chi afferma ormai la necessità di «guardare la realtà negli occhi» e di cominciar a pensare al momento in cui «un intervento possa diventare necessario». Secondo questo punto di vista occorre rassegnarsi alla «constatazione che la Corea del Nord è destinata rappresentare un fattore di instabilità per un certo tempo» e occorre quindi prendere precauzioni per «gestire i conflitti di interesse» ed evitare una loro degenerazione nel caso di una crisi, preparandosi a collaborare tempestivamente «non solo sul piano politico, ma anche a livello operativo, cioè di comandanti militari» (a scriverlo è stato il direttore della Brooking Institution per gli studi sull'Asia nordorientale, Richard Bush). Se il regime Pyongyang ha abituato il mondo ai suoi stentorei allarmi, la sua fine invece potrebbe ora prepararsi in sordina e convenire sempre più a un'America incapace di frenare il proprio declino economico e propensa a ritrovare un prestigio strategico globale, soprattutto nel nome di una causa di «bonifica nucleare».

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