CULTURA & VISIONI

L'ultimo viaggio del re del rock'n'soul

SOLOMON BURKE
ADINOLFI FRANCESCO,

Se ne è andato domenica mattina, Solomon Burke, oltre 220 chili di peso e una voce così spontanea e emotiva da togliere il respiro. È morto mentre era ancora sull'aereo che da Los Angeles lo aveva portato all'aeroporto di Amsterdam-Schiphol. Nella città olandese avrebbe dovuto suonare oggi in occasione del lancio di Hold on Tight, il disco che aveva registrato con gli olandesi De Dijk. Le sue canzoni precedevano la sua fama e la sua persona, classici come Everybody Needs Somebody to Love (1964) - incisa da Rolling Stones, Wilson Pickett e immortalata nel film The Blues Brothers (1980) - prescindevano da lui e dalla sua voce; erano un po' di tutti, come spesso avviene. Lo stesso era successo con Cry to Me, altro suo classico reso noto dal film Dirty Dancing.
Solomon Burke è morto in un luogo di transito, di viaggio, di movimento; è morto come ha sempre vissuto, spostandosi continuamente in giro per il mondo e facendosi accompagnare ovunque da lunghi convogli. Diceva di essere un grande esperto di scienza mortuaria, di praticarla a dovere così come gliela aveva insegnata la nonna a Filadelfia dove era nato al piano superiore di una chiesa. Insieme curavano le cerimonie al dettaglio fornendo a richiesta anche e soprattutto bare e carri funebri dello stesso colore. Quando si spostava nelle aree afro-americane delle città Usa, Solomon si ricordava sempre del primo lavoro; le pompe funebri di un tempo si traducevano in convogli pittoreschi fino al luogo del concerto: minimo due limousine, pulmini, macchine, jeep e motorette al seguito. Poi, senza preavviso, Burke faceva fermare tutti in un fast food qualsiasi e si intratteneva con gli avventori. Ripeteva a tutti che le persone qualunque andavano amate e intrattenute, perché sono i peschi piccoli a comprarti i dischi, i grandi se li fanno dare gratis. La sua voce andava bene a tutti, neri e bianchi. Era un po' gospel e un po' country, tuonava e sapeva abbassarsi come quella di Elvis. Era un battista, e parlava a tutti i battisti d'America. Ne era convinto Jerry Wexler, tra i nomi di riferimento della Atlantic rec., produttore, talent scout e inventore del termine rhythm and blues. Nel 1961 mise sotto contratto Burke e gli fece cantare Just out of Reach, un pezzo che aprì molte strade, capace di legare nord e sud degli Stati Uniti, Manhattan, dove il cantante registrava o i cori delle chiese più urbane ma anche Carolina del Sud, Mississippi, Alabama. Burke era uno splendido ibrido e alla Atlantic avevano capito tutto. Pezzi successivi come Cry to Me o If You Need Me ne furono una prova definitiva, trasformando ufficialmente il soul in un genere con un nome e un suono. Perché Burke riteneva scomoda e «svantaggiosa» la definizione rhythm'n'blues; implicava che prima dovevi scalare quella classifica (solo per neri) e poi ricominciare daccapo sbancando quella bianca, la pop chart. Tanto valeva cambiare le carte in tavola e autoproclamarsi da subito «The king of rock and soul». Lo fece nel '63 e da allora fu sempre il re. Di più: aveva creato una mistica sartoriale così distintiva da scadere spezzo nel kitsch più imbarazzante: scettro, mantello, vestiti d'oro e l'inseparabile trono (un po' per scena e un po' per motivi di peso e salute). Alla Atlantic si mettevano le mani nei capelli per quanto mangiasse e per le richieste di ogni genere: dai ministri di chiesa (era lui stesso un predicatore) sempre al seguito alle farmacie ambulanti. Ora molte di quelle cose finiranno di sicuro in un museo o all'asta. Magari anche con qualche cimelio recuperato dal Dixie Square Mall, il centro commerciale di Harvey (Chicago) immortalato nei Blues Brothers (quando le pattuglie della polizia inseguono la macchina di Belushi e Aykroyd). Verrà presto raso al suolo e al suo posto ne sorgerà un altro. Due eventi intimamente legati che chiudono per sempre un'era. Burke lascia 21 figli, 90 nipoti e 19 pronipoti. Non è stato comunicato il numero di signore che hanno accompagnato la sua esistenza. Evviva il re.

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