LETTERE E COMMENTI

ADDIO A UN CARO AMICO E GRANDE AFRICANO

MOHAMED ADEN SHEK
CASTELLINA LUCIANA,

Abbiamo perso un amico di lunga data, del manifesto e personalmente di molti di noi, un grande africano, ministro e galeotto, e anzi condannato a morte, infine esiliato nel nostro paese: Mohamed Aden Shek,nato nella boscaglia del più disperato paese del continente, la Somalia.
Era venuto qui negli anni '50 con una delle borse di studio che l'Italia postcoloniale - diventata «protettrice» in nome dell'idea che dovessimo accompagnare verso la civiltà i somali che avevamo massacrato - aveva gentilmente concesso a qualche «faccetta nera». Qui Aden era diventato medico e chirurgo, il più amato degli allievi del prof.Stefanini, un «barone» che aveva avuto l'intelligenza di capire e appoggiare il modello di Università che il suo antico scolaro aveva creato quando, tornato in patria, era diventato ministro: fondato sul binomio studio-lavoro, per gli aspiranti medici esperienza nella brousse dopo tre anni di facoltà, perché in Africa si muore più di tetano che di sofisticate malattie cardiache.
Aden era entrato nel governo in Somalia dopo il colpo di stato militare del generale Siad Barre, che aveva spazzato via un parlamentarismo corrotto e formale (un'ottantina di partiti a competere) e abbozzato un approssimativo progetto socialista, come negli anni '60-'70 molti militari del continente. Per realizzarlo si era rivolto ai ragazzi che avevano studiato in Italia e che per impegno morale erano tornati in patria nella speranza di poter essere utili. Il tentativo di Barre sembrò a loro un'occasione.
E per molti versi lo fu: per quasi dieci anni la Somalia è stato uno dei migliori paesi dell'Africa. Ma la speranza non è durata a lungo, l'involuzione rapidissima, così come il passaggio del generale Barre dall'ambigua alleanza con l'Unione sovietica a quella peggiore con la Lega Araba. Che non poteva sopportare ministri come Aden e i suoi amici. Tanto meno quando cominciarono a chiedere apertamente una democratizzazione del paese. Di qui un primo arresto e poi un secondo, durissimo: sei anni e mezzo di carcere in isolamento, condannato a morte, salvato da una battaglia del Parlamento europeo e di Amnesty International, mentre il regime stava crollando, preda di risorgenti rivolte tribali. È nelle maglie di quegli ultimi giorni di potere che si riuscì a portare Aden in salvo in Italia.
Ricordo ancora la sua prima lettera appena scarcerato, la grafia incerta: in prigione gli avevano proibito libri carta e penna, per resistere - mi raccontava - ogni giorno, in cella, rileggeva mentalmente i tanti libri che aveva letto nella vita, ogni volta sforzandosi di aggiungere un dettaglio che prima gli era sfuggito alla memoria. Tanti libri, perché Aden era colto. E anche ironico, spiritoso, allegro, nonostante tutto ottimista. In tutti questi anni dall'Italia aveva continuato a combattere per la Somalia, cercando di tessere un'alternativa, furibondo con le diplomazie internazionali che si affidavano di volta in volta ad uno o all'altro signore della guerra, incapaci di capire che una soluzione avrebbe potuto esserci solo se si fosse ripartiti dal basso, dalle comunità rurali.
Tutte queste cose Aden le ha scritte in un libro appena uscito, «La Somalia non è un'isola dei Caraibi. Memorie di un pastore somalo in Italia», ironico titolo in cui ricorda come, quando arrivò a Roma, nessuno sapesse dove si trovava questo suo Paese di cui pure l'Italia aveva segnato il destino. Un libro uscito solo qualche mese prima dei bellissimi racconti scritti da sua figlia Kaa, pubblicati in questi giorni da Nottetempo: «Fra-intendimenti».
In questi ultimi decenni, sposato con una straordinaria donna italiana, Cicci, Aden aveva ricominciato a fare il medico, una professione interrotta a lungo per via del governo e poi del carcere. Nessuno dei nostri governi ha saputo o voluto utilizzare le qualità e l'esperienza di questo nuovo cittadino italiano, offrendogli la possibilità di lavorare in un modo o nell'altro da qui per la sua Africa (nella cooperazione, per esempio). Un'indifferenza che l'ha ferito, e a me ha fatto vergognare del mio paese. Salvo un breve periodo in cui è stato consigliere comunale di Torino, eletto come indipendente nelle liste del PDS, Aden è rimasto privato della possibilità di fare politica, noi privati del contributo di un uomo che aveva profondamente capito l'Italia e aveva avuto un ruolo determinante nel miglior periodo della vita della Somalia.

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