LIBRI: YANG YI, UN MATTINO OLTRE IL TEMPO, FAZI, PP. 204, EUR0 18,50
Ci sono anni che assumono valore simbolico, padri di eventi memorabili e per la Storia e per gli individui. Così fu il proverbiale Quarantotto nell'800 e così è stato l'Ottantanove del secolo scorso, in Cina come nell'Europa orientale. Di quel buco nero che ha inghiottito rabbie e speranze degli studenti cinesi, negando loro sia la memoria sia il lutto, parlano solo i romanzi degli esuli, Pechino è in coma di Ma Jian, uscito nel 2009 in occasione del ventennale (per Feltrinelli, tradotto dall'inglese da Katia Bagnoli), e ora Un mattino oltre il tempo (Fazi, traduzione dal giapponese di Gianluca Coci) di Yang Yi, cinese emigrata in Giappone nel 1987. Un piccolo romanzo che, con la grazia di una scrittura nitida e solo talvolta, ma con efficacia, incline al lirismo, racconta l'«educazione sentimentale» di una generazione di cinesi segnata dall'Ottantanove, anno da cui uscì mutata la Cina intera: dapprima inebriata dalla «febbre culturale» degli anni '80, quando una nutrita élite di studenti e intellettuali auspicò il rinnovamento politico e la lotta alla corruzione in nome dei diritti del singolo ma anche del progresso della patria socialista, quindi opportunista e disincantata, nel dopo Tian'an men, quando ha piegato il sogno in mitologia di grandezza, rivaleggiando con i grandi stati occidentali non in termini di libertà individuali bensì di potenza e sviluppo materiale.
Pubblicato in Giappone nel 2008 e insignito dell'ambito premio Akutagawa, il romanzo si snoda attraverso coordinate cronotopiche cruciali per la gioventù intellettuale cinese di fine millennio, contrapponendo ai fervidi ma fragili ideali delle settimane precedenti la tragedia la sorte deludente e banale, l'imbuto esistenziale che ha rinchiuso in sé le vite di molti esponenti del movimento democratico.
Nella provincia rurale di una Cina incupita da decenni di desolazione politica, economica, ma soprattutto culturale, due ragazzi ne spezzano l'isolamento accedendo all'università. Si apre loro, figli di contadini o di genitori caduti in disgrazia durante il maoismo, la via del sapere e del successo personale, inscindibile per loro, come per i tradizionali letterati selezionati agli esami imperiali, dallo sviluppo dello stato: così Zhiqiang e Haoyuan sperimentano l'ebbrezza della conoscenza e le tentazioni democratiche che la cultura occidentale trasmessa nei corsi del Dipartimento di letteratura cinese fa loro intravedere durante le lezioni del professor Gan. Il movimento del Quattro maggio 1919 - fondamento storico e insieme mito delle origini della Cina moderna - è letto in chiave contemporanea proiettandosi sui fermenti rivoluzionari alla vigilia dei fatti tragici dell'Ottantanove: motivazione e Spannung del romanzo, spartiacque tra l'età delle speranze e delle passioni e l'età della ragione, della frustrata accettazione della realtà. Questa zona «eroica» della loro esistenza - in cui parteciperanno alle manifestazioni di protesta innescate in tutto il paese in quel fatidico anno, spingendosi anche fino a Pechino - coincide con una altrettanto eroica fase della loro «educazione sentimentale»: l'amicizia, innanzitutto, e l'amore dai lembi sbiaditi tra amor di patria e amor sensuale, alimentato dalle conturbanti e proibite canzonette di Teresa Teng e incarnato dalla studentessa leader del movimento, Bai Yinglu, che attira e innamora di sé i due compagni. La protesta studentesca si imprime come un destino indelebile nella carriera e nella vita dei due giovani: verranno separati e separatamente vivranno le conseguenze dell'abortita esperienza rivoluzionaria, affrontando la realtà dell'esilio l'uno, la normalizzazione in patria l'altro.
Tradita da troppi ideali, troppe illusioni, dalla musica «corruttrice» di cantanti taiwanesi e dalla suggestione romantica dei poeti inglesi, dalla friabilità della propria utopia prima ancora che dai carri armati e dalle misure repressive del governo, la generazione descritta da Yang Yi è quella che Ma Jian, altro scrittore in esilio, in Spaghetti cinesi definisce «i primi sacrificati sull'altare delle riforme». A tradirla un carico di aspettative insostenibile che nutrì per anni le aule universitarie e i circoli letterari dopo il buio della Rivoluzione culturale, instillando un sentimento eroico e ipertrofico dell'individuo, una tensione quasi prometeica verso l'autoaffermazione soggettiva e pubblica al contempo. Il riferimento al mattino nel titolo è sia metafora di un momento denso di promesse nella vita dei protagonisti e del paese sia evocazione temporale dell'evento, allorché, come rievoca il poeta esule Bei Dao, «una parola ne distrusse un'altra/un libro ordinò/di bruciarne un altro/un mattino costruito sulla violenza del linguaggio/cambiò il mattino».
Nella seconda parte della trama, «oltre il tempo» - azzerato dalla cruenta disillusione nella piazza simbolo di tutta la Cina e di tutte le storiche proteste - si staglia un decennio di solitudine e sacrificio, in Giappone, rifugio per Haoyuan dopo l'espulsione dall'università e il matrimonio con un'amica di origine giapponese; o in Cina, dove Zhiqiang, smarriti gli ideali di studente, si adatta suo malgrado al «felice» trend economico che ha fatto ben presto dimenticare e diventare obsolete le attese del movimento democratico. Risvegliatasi più cinica e materialista dal mattino infranto, la terramadre Cina si riflette senza riconoscersi nel Giappone e negli altri paesi stranieri dove si disperdono alcuni attivisti dopo l'Ottantanove; fra questi, Haoyuan, roso da un solitario tormento lungo tutto il romanzo, meglio rappresenta il dilemma dell'incompiuto movimento studentesco, che è anche il dilemma dell'intero Novecento cinese, consumatosi nella negazione plateale delle idealità con cui si era aperto. Forse, riflette il protagonista, «si trattava di ambizioni troppo elevate per sperare che un buon numero di persone potesse comprenderle». Del resto, il grande Lu Xun, ammirato dai due amici per la «forza della sua scrittura» e come «intellettuale veramente esemplare, amante della patria», commentando l'uccisione di alcune studentesse inermi durante una protesta a Pechino nel 1926, constatava amaro: «La storia dell'umanità, che procede attraverso guerre insanguinate, è come il carbone, è necessaria una gran quantità di legname per formarne un solo pezzetto, ma le manifestazioni, tanto più se a mani nude, non vi hanno alcun ruolo».
Tratta di giovinezza e disinganno, del potere formativo della letteratura, ma anche di migrazione e identità questo romanzo in bilico tra lingue diverse: il giapponese sembra aver sfrondato e reso più lieve e nostalgica la narrazione del dramma generazionale, suggerendo con semplicità i cupi grovigli esistenziali annodati dalla fallita rivoluzione e dalla grande accelerazione cinese di fine secolo. Ed è proprio in questa lacerazione linguistica che l'opera si inserisce nella complessa questione della sinicità: l'autrice racconta la «fine dell'innocenza» dell'era riformista di Deng in una lingua «altra», così come i suoi personaggi e tanti autori della «diaspora cinese» paiono disperati ostaggi del paradosso di dover esorcizzare la violenza del linguaggio rammemorando il concetto di patria - che nel caso cinese tanto si fonda sull'unità e longevità linguistica - in un idioma a essa estraneo.