Con la loro indolenza saggia e alcuni spunti fulminanti, le presentazioni dei brani di Dino Saluzzi, una gustosa miscela di italiano e spagnolo, meriterebbero una recensione non meno della musica del bandoneonista argentino. Saluzzi parla per esempio del suo amore per il tango, «ma non quello di adesso, quello di una volta»: spiega che c'era un tango «fatto per ballare, che doveva avere un ritmo», e ne dà un paio di esemplificazioni semiparodistiche, sottolineando la meccanicità della scansione. Poi aggiunge: «Forse in quel tango c'era un premonizione», e accenna un tango che sembra trasfigurarsi in una cadenza sinistramente marziale. E per rendere più trasparente l'allusione alla dittatura, avvicina la mano aperta alla fronte, in un saluto militare. Tutto per raccontare che la sua preferenza andava invece ad un tango più evocativo, più sfumato, più libero, spesso proposto - spiega - da artisti di origine italiana.
In una delle serate di Jazz By The Sea ospitate dalla Corte Malatestiana, Saluzzi comincia per un paio di brani in duo con la violoncellista tedesca Anja Lechner: musica pregevole ma anche un po' rigida. Poi però arriva Felix Cuchara Saluzzi, fratello di Dino, col sax tenore e il clarinetto, e subito la musica prende tutta un'altra spontaneità e freschezza. Con la sua verve popolaresca Felix Saluzzi è perfetto per dare un godibilissimo equilibrio al trio: il lirismo quasi austero, pieno di ritegno, del bandoneon, gli accenti classici della Lechner, e il sax, che sposa movenze argentine con un fraseggio e un sound da cool jazz degli anni cinquanta. In un brano ispirato dal mondo dell'infanzia di Saluzzi, affiora una leggera eco di musica popolare, appena accennata, come il filo di un ricordo, e il bandoneonista evoca la magia del piccolo paese isolato nel quale è cresciuto con una improvvisazione rarefatta, mentre il sax tenore del fratello prende un suono rustico, deliziosamente quasi sgraziato. Il lirismo di Saluzzi è asciutto, estraneo all'enfasi, antiretorico; la sua essenzialità cattura, costringe ad ascoltare.
In un panorama di festival della stagione balneare in cui il jazz è spesso ormai poco più che un pretesto, una intestazione à la page, la rassegna di Fano è una delle non molte che si sforzano di mantenere un decoro artistico e un'aderenza a quel termine «jazz» che portano nel nome che si sono dati. Se non tutto nel programma di Fano è jazz in senso stretto, i musicisti in cartellone col jazz hanno però come minimo intrattenuto o intrattengono consistenti rapporti: Saluzzi con Gato Barbieri, Charlie Haden, John Surman, Rava e tanti altri, il bassista camerunese Richard Bona con Salif Keita, Joe Zawinul, Metheny, Hancock, solo per fare qualche nome. Dal suo paese, che ha la singolare prerogativa di essere una fucina di formidabili bassisti elettrici (fra l'altro anche Etienne Mbappe, che Zawinul chiamò a rimpiazzare Bona, è camerunese), Bona si è trasferito a Parigi poco più che ventenne, alla fine degli anni ottanta: poi a metà anni novanta l'avvio di una fortunata carriera negli Stati Uniti e la cooptazione nel firmamento della fusion.
Una predilezione per i ritmi afrocubani, un po' di soul, funky, fusion, un omaggio a Pastorius, una deliziosa performance vocale senza accompagnamento: un assortimento che non rivoluzionerà la storia della musica ma estremamente piacevole. Africa non granché, a parte la lingua in cui Bona canta, alternandola all'inglese, con un personale e intimo falsetto, e un particolare gusto melodico. A Richard Bona - come il pubblico raccolto davanti al Palcoscenico sull'acqua al Porto di Fano ha potuto apprezzare - non dispiace affatto scherzare col pubblico e fare spettacolo: nella simpatica leggerezza dello show e del repertorio colpisce però l'estrema serietà di Bona nel porgere la sua musica. Rimarchevole la nitidezza con cui suona il gruppo (tromba, chitarra, tastiere, batteria e percussioni, oltre al basso e alla voce di Bona), ben assortito fra Usa, Francia, Olanda, Cuba e Brasile: brillantezza e puntualità esecutive, vivacità ma sempre con eleganza, sound calibrato; lo stesso Bona, malgrado il suo virtuosismo, non eccede affatto né in sfoggio di destrezza, né nel mettersi in evidenza col volume del suo strumento, tenuto molto moderato e ben inserito nell'insieme.