CULTURA & VISIONI

Botto&Bruno REALI E INESISTENTI

IMMAGINI DI LUOGHI CHE ENTRANO NELLA VITA
DEL DRAGO ELENA,

Gianfranco Botto e Roberta Bruno, da due decenni compagni di vita e di lavoro, analizzano con le loro installazioni fatte di fotografia, disegno collage, musica, così come con i loro video, spazi urbani periferici abitati soprattutto da adolescenti alla ricerca di un'identità. Al centro della loro pratica, infatti, c'è innanzi tutto il divenire. Rapido e disordinato, il divenire che raccontano è quello di aree urbane spesso lasciate crescere senza un'attenzione particolare, senza una cura dei dettagli, e quello, altrettanto incerto, dei giovani che le abitano, ancora alla ricerca di una propria identità che in qualche caso non arriverà mai a trovare compimento. Un'analisi quella di Botto e Bruno, entrambi torinesi, che comincia dalla fotografia e si costruisce a partire da un dettaglio architettonico fino a ricreare un paesaggio metropolitano allo stesso tempo preciso come una biografia e universale come un racconto, in cui ognuno di noi, almeno per ciò che riguarda un particolare, può riconoscersi. In mostra alla Galleria Sales di Roma, li abbiamo incontrati nel nuovo giardino del Maxxi, in occasione della Festa dell'Architettura appena conclusa.

Potremmo cominciare affrontando il vostro oscillare tra potenzialità tecnologiche e qualità artigianali, a partire dalla fotografia.
La manipolazione dell'oggetto fotografico è al centro dei nostri interessi, scattiamo tantissime foto e poi lavoriamo per accostare un'immagine con l'altra e per trovare le giuste relazioni tra queste, allo scopo di ricostruire luoghi inesistenti partendo da frammenti di realtà. Ma si tratta di un processo squisitamente analogico, il digitale riguarda soltanto la stampa, persino la resa cromatica all'inizio era data dal viraggio in fase di stampa, adesso invece l'atmosfera irreale è dovuta soltanto al montaggio.

Questa scelta di non usare il digitale la potreste definire di natura ideologica?
No, assolutamente. Quando facciamo i video, infatti, utilizziamo il digitale ma ci piace usare tutti i mezzi a disposizione: da quello manuale, ossai artigianale, alla tecnologia più avanzata. Nei nostri lavori fotografici abbiamo voluto mantenere l'aspetto analogico per toccare con mano ciò che stiamo facendo. I collage li realizziamo con il «cutter», dove la componente dell'errore è sempre presente e non c'è la freddezza del photoshop, anche se noi simuliamo i suoi effetti manualmente, e questo sì che è un paradosso! Adesso siamo ritornati al disegno: abbiamo una moltitudine di possibilità e cerchiamo di utilizzarle tutte.

Come mai avete sentito l'esigenza negli ultimi progetti di utilizzare il disegno?
Per la mostra ancora aperta alla Galleria Sales di Roma, abbiamo realizzato una striscia di wallpaper in bianco e nero come fondo e poi sopra, alternati come fossero delle note musicali, dei disegni e dei collage: quelle che una volta erano soltanto matrici da utilizzare per la stampa finale adesso diventano il lavoro tout court. Abbiamo poi disegnato a grafite basandoci su immagini prese dai giornali, recuperando così l'elemento testuale che faceva parte della nostra grammatica degli esordi: il testo insomma sostituisce le figure, i personaggi presenti nei lavori precedenti.

Dunque potreste dire che si tratta per voi di un ritorno alle origini?
Per la verità, noi non abbiamo mai smesso di disegnare, ma non avevamo mai presentato al pubblico questo tipo di lavoro: preferivamo stampare i disegni con lo stesso procedimento della stampa fotografica perchè puntavamo a un raffreddamento del segno, a un allontanamento dalla sfera emotiva. Le mostre più attuali invece sono molto più intime, più raccontate e meno urlate: siamo in una nuova fase.

Lavorate insieme da moltissimo tempo, come è organizzato il vostro processo creativo?
Siamo interscambiabili, non ci siamo mai dati ruoli definiti, tutti e due ci concentriamo sullo stesso disegno alternandoci, ed è un lavorarsi addosso, un annientare il proprio segno per cercarne un altro; entrambi facciamo fotografie, per esempio, e ci piace molto non riconoscere l'autore di un dato scatto. Per questo, forse, scattiamo moltissimo e abbiamo un archivio ricco di immagini divise per categorie - pozzanghere, sassi, edifici, figure - e quando si apre l'archivio la ricerca è lunghissima perché spesso costruiamo le installazioni a cominciare da un particolare. L'aspetto temporale nel nostro lavoro è importante perchè, lavorando in due, è necessario che il tempo scorra molto lentamente. Discutiamo moltissimo prima di cominciare a lavorare, e finché non siamo d'accordo un progetto non viene avviato.

Succede spesso che vi troviate in disaccordo?
Stiamo insieme da ventidue anni, e viviamo insieme facendo quasi tutto in due, così sebbene abbiamo due modi diversi di vedere le cose, si è creato un tale feeling che è come lavorare da soli. Non c'è conflitto, quello che ci interessa è proprio il processo di elaborazione comune del progetto attraverso il dialogo, non c'è mai un no, ma una proposta alternativa.

Nel vostro lavoro la componente architettonica gioca un ruolo notevole. A quale aspetto dell'architettura siete interessati? Sociologico, estetico...
Siamo inciampati nell'architettura; al contrario di quanto molti credono non abbiamo mai fatto studi in materia. Uno dei motivi per i quali ci interessano gli spazi urbani è perchè siamo nati a Torino, in luoghi periferici, dove l'architettura entra nella vita perchè il rapporto con l'esterno è fortissimo. Soprattutto quando crescevamo, la periferia era ancora molto selvaggia, c'erano veri e propri «polmoni verdi di immaginazione», luoghi abbandonati accanto alle fabbriche dai quali eravamo attratti e respinti allo stesso tempo.

Il vostro studio è ancora a Mirafiori. Come è cambiato in questo periodo il quartiere operaio per eccellenza?
È una zona molto tranquilla, dove è presente un'immigrazione con famiglie integrate, dunque non c'è molto conflitto sociale. E lo spazio pubblico è vissuto, soprattutto dagli immigrati che portano i figli in bicicletta, organizzano pic-nic, e rendono questa una zona sicura. Gli adolescenti però hanno un forte problema di identità, un problema che noi, cresciuti negli stessi posti, non avevamo affatto. Eravamo radicati nel nostro quartiere operaio e abbiamo imparato ad amarlo, mentre i giovani oggi si sentono rifiutati e non vedono l'ora di andarsene. Adesso, d'altronde, le fabbriche non ci sono più, alcune vengono convertite in centri commerciali, altre abbandonate, hanno eliminato tanti elementi, per esempio i piccoli cinema pieni di carattere e di fascino.

Voi non avete provato gli stessi sentimenti di insofferenza?
Il senso di rifiuto è lo stesso, quando vieni da questi luoghi sei invisibile, hai un modo di proporti e di vestirti diverso, non provi un sentimento di integrazione, ma senti piuttosto di appartenere a un altro luogo che nessuno conosce. Anche all'Accademia, i contrasti sociali con coloro che provenivano dalla élite, fotissima a Torino, si sentivano prepotentemente. E il nostro lavoro è nato proprio dall'esigenza di rompere questa dinamica: volevamo realizzare lavori suscettibili di diversi livelli di lettura, e per questo abbiamo utilizzato architetture riconoscibili per le persone che vivono in periferia, all'incirca il 90%.

Poi però siete riusciti a affermarvi nel mondo dell'arte.
Abbiamo lavorato molto prima di sentirci pronti a far vedere ciò che stavamo producendo, poi la nostra fortuna è stata quella di trasformare «un difetto», o almeno quello che viene considerato tale, in una qualità. Non abbiamo mai nascosto il nostro essere ragazzi di periferia: anzi continuiamo a viverci, il nostro studio è là, non vogliamo che il mondo dell'arte finisca per cambiarci, anche perchè è proprio grazie a quei luoghi che abbiamo trovato la nostra strada. Avevamo un sogno: quello di esprimerci attraverso l'arte, e questa spinta ci ha salvati. Chi non ha un obiettivo finisce per essere sempre arrabbiato con il resto del mondo, oppure se ne disinteressa: vediamo molti adolescenti vagare dalla mattina alla sera, e per alcuni di loro solo la musica è una via di uscita, tanto che, quando sentiamo delle note arrivare dalle cantine o dai garage ci commuoviamo.

Come lavorate nelle periferie che non conoscete, e come arrivate a rendere in quei luoghi estranei gli stessi sentimenti diffusi nelle geografie a voi più familiari?
Nelle altre periferie dove siamo arrivati seguendo il nostro lavoro, in Lituania, in Corea, in Spagna, e in Francia, cerchiamo di entrare con grande cautela, perchè il rischio è quello di fare del turismo, di restare in superficie. Recentemente siamo stai a Tarbes, vicino a Lourdes, dove una intera zona è stata smantellata nonostante si trattasse di condomini senza alcun problema. Prima di realizzare l'installazione per il Museo di Arte contemporanea abbiamo intervistato alcuni abitanti del quartiere, tra i quali l'ultima persona che non voleva accettare di spostarsi nei nuovi appartamenti, piccoli e bassi e lasciare uno spazio comunque denso di storia e ricordi. All'inaugurazione sono venuti molti abitanti della zona e hanno potuto rendersi conto del fatto che i nostri graffiti, lungi dal trattare il loro quartiere in maniera denigratoria, come un non luogo, gli restituivano storia. È stato un lavoro molto forte da un punto di vista emotivo.

È questa tonalità emotiva che implica la scomparsa, nei vostri lavori, di persone riconoscibili?
Si, e inoltre abbiamo scelto di inserire sempre noi stessi come protagonisti delle installazioni. Non vogliamo utilizzare qualcuno negandogli lo sguardo, che d'altronde, soprattutto nel suo aspetto sentimentale, non ci interessa. Quanto a noi, non siamo identificabili, siamo neutri e comunichiamo attraverso gli oggetti. La nostra non è un'arte relazionale: la la comunicazione con le persone ci interessa soprattutto nella fase progettuale, mentre nel lavoro lasciamo parlare altri elementi, per esempio, appunto, quelli architettonici. Registi come Ken Loach o Pasolini hanno scelto per i loro film persone trovate per strada, poi hanno seguito i loro destini anche una volta che il film era terminato, e così facciamo noi. L'atteggiamento è lo stesso: non ci piace l'arte relazionale che vediamo in giro, quella in cui si utilizzano le persone per un'idea e poi si abbandonano. Finchè non avremo un progetto che ci permetta di seguire le persone implicate nella evoluzione del loro percorso continueremo a rimanere a distanza.

La scelta di rendervi protagonisti dei vostri lavori si potrebbe interpretare come la scrittura di un'autobiografia?
Nel ritrarci ci camuffiamo fino a non renderci riconoscibili, dunque non credo sia in questione il narcisismo. C'è però un'analisi della nostra storia, tanto che nei nostri lavori compaiono i pupazzi, gli strumenti musicali, tutti gli oggetti che hanno fatto parte per breve tempo nella nostra vita.

In queste nostre città contemporanee, i musei che si presentano come nuove cattedrali hanno secondo voi un rinnovato potere aggregativo?
A noi sembra di sì, soprattutto se sono decentrate. Per gli artisti, poi, uno spazio caratterizzato come quello del Maxxi è una sfida, che non ci incute soggezione. A patto, però, di poter realizzare dei lavori site specific. Quando ci è capitato di dover lavorare in uno spazio completamente circolare, al Maman di Ginevra, per esempio, abbiamo inventato un lavoro ad hoc ed è stato molto interessante, come d'altronde alla Biennale, all'ingresso delle Corderie. Del resto, la nostra quotidianità è satura di disturbi, visivi, acustici, e dunque lo spazio bianco che alcuni artisti pretendono è un anacronismo.

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