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Gioia sull erba, il beat Meroni

DEL SETTE LUCIANO,

Lui lo detestava, e condivideva le critiche moralistiche della stampa, non solo sportiva, di quegli anni. Lui era Edmondo, «Dino» Fabbri, Commissario Tecnico della Nazionale italiana nella più brutta stagione della storia azzurra: i Mondiali di Inghilterra, anno 1966. Il giocatore che detestava, rispondeva al nome di Luigi Meroni, attaccante del Torino. Gigi andava troppo controcorrente per i perbenisti di allora, Fabbri compreso: capelli lunghi alla Beatles, abiti eccentrici, niente cravatta, una gallina portata al guinzaglio per le strade della città, una mansarda modesta invece della casa lussuosa offertagli dal club, l'hobby trasgressivo della pittura. E poi, la colpa delle colpe: convivere con una donna, Cristiana, già sposata. Il 18 aprile del 1966, Meroni sbarca dall'aereo che ha condotto la Nazionale a Varsavia per un incontro di qualificazione ai Mondiali contro la Polonia. I suoi capelli e il suo modo di vestire, fanno scrivere al quotidiano romano e di destra Il tempo «... L'indecenza di quello squallido personaggetto di Gigi Meroni... povera maglia azzurra!».
Fabbri, nell'albergo dove la squadra è ospitata, ha un colloquio con il giocatore e gli propone un patto/ricatto: la maglia di titolare, se si taglia i capelli. Meroni dice di no, e resta in panchina. Era già successo allo stadio Filadelfia di Torino, qualche tempo prima, in un'amichevole con l'Argentina. C'erano voluti i fischi del pubblico persino all'indirizzo di Sandro Mazzola, il figlio del grande Valentino, per far entrare in campo Gigi. Che aveva risposto segnando un gol di sinistro, all'incrocio dei pali. Da titolare, contro la Bulgaria, aveva fatto centro sotto la traversa, dopo una serpentina folle e velocissima. Si va in Inghilterra. Vittoria per due a zero ai danni del Cile, zero a uno con la Russia e Gigi in campo. Poi la beffa coreana: rete del dentista Pak Doo Ik, Gigi in panchina, eliminazione agli ottavi, tutti a casa. Il capo più cosparso di cenere dalla stampa, complice l'opportunismo del ct, è quello con i capelli troppo lunghi del «personaggetto indecente».
L'anno 1966 appartiene alla breve vita di Gigi Meroni, che i testi di Marco Peroni e i disegni di Riccardo Cecchetti ricostruiscono nelle tavole della bellissima graphic novel Non vedo l'ora di diventare bambino, Gigi Meroni, il ribelle granata (Becco Giallo, pp. 144, 18 euro), biografia «al contrario». Il libro, infatti, si apre con un palloncino rosso che vola nel cielo, la Mole Antonelliana, il panorama di Torino, e parole che dichiarano l'intento narrativo «Io, per esempio, sono nato con ventiquattro anni il 15 ottobre 1967, e non vedo l'ora di diventare bambino per essere davvero, fino in fondo, quello che voglio». Il 15 ottobre 1967 è il giorno, anzi la sera, in cui il campione muore. Gigi, in compagnia del terzino Fabrizio Poletti, suo grande amico, sta attraversando Corso Re Umberto all'altezza del civico 46. Vanno al solito bar per festeggiare la vittoria granata contro la Sampdoria, quattro a due, doppietta di Meroni. Arriva a velocità sostenuta la 124 Coupé di Attilio Romero, diciannovenne della Torino benestante (Romero diverrà, sapore di beffa, presidente del Toro nel 2000, e nel 2005 condurrà la squadra al fallimento societario), che travolge Gigi. Una seconda auto ne aggancia il corpo sulla strada, trascinandolo per alcune decine di metri. Poche ore dopo, il piccolo genio del pallone se ne va. Ai funerali parteciperanno oltre ventimila persone, un gruppo di detenuti del carcere Le Nuove farà una colletta per mandare una corona di fiori, don Francesco Ferraudo celebrerà la messa infischiandosene delle accuse che gli muove la Chiesa per aver ammesso alla casa di dio «un pubblico peccatore».
Il quotidiano La Stampa affiancherà gli alti prelati nella campagna per avere la testa del prete disobbediente. Questa la cronaca, di cui va dato conto perché nel libro di Peroni e Cecchetti non c'è. Nessun funerale, nessuna lacrima, nessuna immagine della folla. Altra, e originale, è la scelta dei due autori. Quel 15 ottobre 1967 diventa, infatti, soltanto la data dalla quale Meroni inizia il viaggio a ritroso nella sua esistenza, fino a tornare il bambino che impara a dribblare tra le mura strette dell'oratorio, e vede nelle zolle di un campo di periferia il più bello degli stadi in cui giocare la più memorabile delle partite. Quando le vicende calcistiche entrano in gioco nella storia, prendono comunque la forma e la sostanza dell'avventura umana; l'esaltazione dopo il gol è soltanto gioia allo stato puro, condita dall'ironia mai cattiva che apparteneva al carattere di Meroni.
Dodici marzo 1967, Inter-Torino. I nerazzurri di Helenio Herrera sono imbattuti in casa da tempo immemore. «... Il gol più assurdo l'ho fatto all'Inter, proprio in faccia a quello spilungone di Facchetti. Ricevo la palla in aerea, sono spalle alla porta, defilato a sinistra, la trascino verso di me senza fermarla, e la vado a carezzare da sotto, d'interno, senza pensarci sopra un secondo. La parabola è forse la più arcuata che si sia mai vista, una presa in giro, da sembrare così lenta, che quasi mi vergogno di esultare davanti a Sarti, il portiere». Finirà due a uno per il Toro. Ma non finiranno le polemiche perbeniste. «Ah, dimenticavo: mi sono fatto crescere la barba. Ne parlano tutti, anche sul giornale... Così, a casa della mia famiglia a Como, arrivano dei vaglia e dei soldi perché mi faccia un giro dal barbiere». Como, dove Meroni è nato e comincia a giocare, Genova, Torino: le tre tappe fondamentali di una carriera dove il fuoriclasse Gigi fa gola persino al presidente della Juventus Gianni Agnelli, che offre al Toro 750 milioni per averlo. Cifra enorme, respinta dalla protesta dei tifosi e degli operai di una Fiat in forte odore di crisi. Como, Genova, ma soprattutto Torino, e una squadra che ama il suo attaccante non solo durante i novanta minuti della partita, ma anche dopo. O prima, come a Napoli, l'anno è di nuovo il 1967. Manca una mezz'ora al fischio di inizio. Gigi entra in campo vestito in abiti borghesi, sulla testa una bombetta. Si china, sfiora l'erba con le mani, si porta un dito alla bocca e poi lo alza per sentire «che aria tira». Dalle gradinate è un tempesta di fischi e di monete da cento lire. Le monete, Gigi le raccoglie. Quando rientra negli spogliatoi, annuncia sorridendo ai compagni «Ragazzi, ho fatto aperitivo per tutti».
Questo, e tanto altra ancora, era la Farfalla Granata, l'anarchico involontario, l'uomo innamorato perdutamente di Cristiana, il pittore stimato dai critici d'arte, il sarto dei suoi abiti. Questo era, prima di ogni altra cosa, il bambino che Peroni e Cecchetti ci restituiscono nell'emozione e nell'eleganza dei disegni e dei testi. Raccontandoci la passione del calcio che corre parallela alla passione umana; la corsa sull'erba di uno stadio uguale alla corsa dentro una vita. Sembra incredibile, oggi, pensare che «giocare al pallone» in serie A o in Nazionale, per qualcuno, e per uno in particolare, fosse proprio così. E viene da domandarsi, oggi, se nella Nazionale di Marcello Lippi, Meroni sarebbe stato convocato magari giocoforza, relegato in panchina, chiamato quando non serve più a niente, imputato principe di un'eventuale sconfitta. I personaggi scomodi, anche nel calcio, esistono da sempre. Gigi lo era. E resterà il più scomodo di tutti.

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