CULTURA & VISIONI

Dall India all Islam, l ordine nuovo di un teorico di classe

ANTONIO GRAMSCI
LIGUORI GUIDO,

LIBRI AA. VV. GRAMSCI LE CULTURE E IL MONDO, VIELLA, PP. 278, EURO 29

L'ultimo scritto di Giorgio Baratta, studioso gramsciano scomparso di recente, è una delle due Prefazioni (l'altra è di Giuseppe Vacca) che introducono questo volume originato da un convegno promosso da Fondazione Gramsci e International Gramsci Society Italia (in primo luogo, da Baratta stesso), dedicato alla presenza di Gramsci negli studi che ne hanno decretato la massima diffusione mondiale nell'ultimo ventennio: gli studi culturali, post-coloniali e sui subalterni.
Il libro è articolato in quattro sessioni: i subaltern studies indiani, gli studi culturali britannici, l'area statunitense, il mondo islamico e mediterraneo. È dalla seconda sessione che conviene partire, sia perché i cultural studies che presero avvio con la «scuola di Birmingham» furono gli apripista per le altre «scuole» cui si è fatto cenno - e le interessanti ricostruzioni di Anne Showstack Sassoon, Ursula Apitzsch ed Elisabetta Gallo ce ne ricordano aspetti e problemi fondamentali; sia perché il volume è introdotto da una conversazione di Baratta e Derek Boothman con Stuart Hall, che dei cultural studies è tra i massimi esponenti. La prerogativa di Hall è stata quella non di aver interpretato Gramsci, ma di averlo usato a fronte di alcuni fenomeni politico-sociali contemporanei - ad esempio nella lettura del thatcherismo come «populismo autoritario». Su alcuni aspetti di questa formula Hall ritorna, sostenendo che anche «Berlusconi sia un esponente esemplare del populismo autoritario... per il legame fortissimo che egli stabilisce tra media, sport, intrattenimento ecc., quali ingredienti essenziali per governare uno Stato». Hall non manca di problematizzare il passaggio dell'uso delle categorie gramsciane dal contesto «nazionale» in cui esse furono pensate all'odierno contesto della globalizzazione: questione non peregrina, nel senso che spesso troppo sbrigativamente si cerca di far interagire le categorie dei Quaderni con questioni contemporanee, senza pensare adeguatamente la loro adattabilità (o traduzione).
Anche la sessione dedicata agli studi sui subalterni di matrice indiana è di grande interesse: non solo per la preziosa ricostruzione storica di Paolo Capuzzo o le puntualizzazioni avvertite di Marcus Green sul tema delle classi subalterne nelle note gramsciane, ma soprattutto per lo scritto di uno dei protagonisti principali dei subaltern studies, Renajit Guha, magistrale nello spiegarci le complicazioni del concetto di potere nel periodo coloniale e postcoloniale in India e perché alcune delle principali categorie gramsciane siano tornate utili nell'Asia meridionale. Quasi in un barattiano «contrappunto» ideale con le preoccupazioni di Hall, Guha afferma che «il pensiero di Gramsci possiede un'apertura che invita e incoraggia l'adattamento». È senz'altro vero che la forma del pensiero gramsciano - la sua necessaria frammentarietà, il suo carattere non sistematico, non dogmatico, dialogico (avrebbe detto Baratta) - rappresenta un invito allo sviluppo e all'adattamento di quel pensiero a diversi contesti. Il problema è però sapere, a mio avviso, che questa opera di necessaria e opportuna traduzione del pensiero di Gramsci non deve divenire tradimento della volontà «fondativa» di questo autore di pensare-agire per trasformare il mondo in senso socialista: in tal caso il «traduttore» rischia di trasformarsi in «traditore» e lasciare del tutto evaporare le coordinate di fondo dei Quaderni. Se si è convinti che le questioni che «fanno epoca» nel tempo di Gramsci siano ancora le nostre è un rischio da evitare.
I rischi di cui sopra sono forse particolarmente presenti quando l'utilizzo di Gramsci avviene nei dipartimenti di humanities delle università statunitensi. A vari aspetti del Gramsci statunitense sono dedicati gli interessanti saggi di Joseph Buttigieg, Renate Holub, Ronald Judy, Benedetto Fontana e Giancarlo Schirru. È soprattutto Fontana (che è statunitense e insegna a New York) a interrogarsi su quale sia il destino dello strumentario concettuale dei Quaderni in una società in cui «la categoria di classe è uscita dal vocabolario politico della sinistra radicale», sostituita da issues che sembrano viaggiare ognuna per conto proprio, senza riuscire a trovare una sintesi e un progetto che facciano loro compiere il salto dall'«economico-corporatico» al (potenzialmente) egemonico. Fontana paventa il pericolo di una situazione in cui, non uscendo dalla frammentazione, le varie schegge dei movimenti antisistemici non escano mai dalla subalternità: «La politica della sinistra, incentrata sulle questioni di identità, diversità e multiculturalismo, invece di offrire un'alternativa all'ordine dominante, è il riflesso più puro di quell'ordine», scrive Fontana.
Di grande interesse anche la quarta sessione: Abdesselam Cheddadi, Derek Boothman e Massimo Campanili si interrogano sulla presenza dell'Islam nei Quaderni e sulla presenza di Gramsci nel mondo arabo e islamico. Peter Mayo e Michele Brondino esaminano le connessioni tra la questione meridionale, la questione del linguaggio e il Mediterraneo. Iain Chambers, infine, accosta meridionalismo e orientalismo, Gramsci e Said. Autori e temi che ci riportano a Giorgio Baratta: questo libro così suo ci fa proseguire il confronto con le suggestioni che ha contribuito come pochi a diffondere.

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