Il film che vedremo in tv tra qualche giorno - C'era una volta la città dei matti - offre un'occasione che non va sprecata, quella di ripensare a Franco Basaglia e alla straordinaria impresa collettiva che egli ha suscitato e guidato dalla fine degli anni '60, quando l'esperienza di Gorizia uscì dai suoi confini con la pubblicazione di L'istituzione negata (1968), alla sua morte improvvisa nel 1980, appena due anni dopo la riforma approvata il 13 maggio del '78. Sono passati trent'anni, eppure il nome Basaglia appartiene al presente: «legge Basaglia» viene sempre più spesso chiamata «la riforma psichiatrica», ad essa viene legato il volto di Basaglia e qualche sua frase come slogan, ma molti credono che Basaglia sia stato ministro della sanità, o che abbia scritto la «legge 180» di suo pugno. E così, mentre si continua a rovesciare su di lui il bene e il male di una riforma di cui ha visto solo la nascita, si è dimenticato tutto di lui e della sua impresa, storia lontana su cui, come su tutta quell'epoca, si sono accumulate distorsioni non sempre innocenti. Benvenuto quindi il film che racconta di lui e di quegli anni sui quali bisogna riprendere a ragionare, senza dimenticare l'oggi ma mettendo a fuoco correttamente passato e presente, il rapporto tra Basaglia e la sua impresa da un lato e la riforma dall'altro, dando a ciascuno il suo ruolo e le sue responsabilità.
Buona ma non applicata?
Credo si debba cominciare sgombrando il campo da un luogo comune già comparso nelle prime riflessioni sul film: l'idea che la legge di riforma sia buona e giusta ma non applicata oppure che le intenzioni fossero buone e generose ma che, dopo il tempo degli eroi, si debba accettare l'inevitabile miseria del reale, che magari giustifica una revisione dei principi e delle speranze. Guardiamo invece ai dati e ai fatti. È corretto dire che la «legge Basaglia» per i primi dieci, quindici anni rimase largamente sulla carta, mentre le regioni facevano buone leggi che si guardavano bene dall'applicare e il parlamento cercava di discutere al buio (senza alcun dato credibile) i disegni di controriforma che si affollavano. Ma poi ci sono state le indagini finanziate dal ministero della sanità (la prima, del Censis, è del 1987), la commissione parlamentari di indagine, i progetti-obiettivo, le leggi finanziarie di diverso colore politico che hanno ribadito l'obbligo di chiudere i manicomi e riutilizzarne le risorse nei nuovi servizi, il grosso del movimento dei familiari che si è mosso per applicare e non disfare la legge, le più importanti organizzazioni degli psichiatri che hanno fatto altrettanto. Insomma, i manicomi non sono stati chiusi nel '78 ma nel '98, i servizi di salute mentale sono arrivati in ritardo e spesso a pezzi e bocconi così che il panorama dell'offerta è diseguale anche all'interno della stessa regione. Ma sia chiaro: le istituzioni della psichiatria pubblica sono cambiate radicalmente in questi trent'anni e questo è uno dei non molti campi in cui in Italia si è realizzata una innovazione colossale, con la chiusura di centomila posti letto e la creazione di sistemi di servizi comunitari con posti letto in strutture di piccole dimensioni. Ma questa colossale innovazione è anche tale nel contenuto democratico che pure identifica nettamente la legge di riforma? Qui il discorso si fa più complicato. Il ciclo di innovazione che si è compiuto ha dato luogo a sistemi pubblici che sono assai diversi nei modelli organizzativi e nelle culture degli operatori, pur vivendo tutti sotto lo stesso ombrello della «Basaglia» ed essendone il frutto.
I vecchi attrezzi psichiatrici
Abbiamo così sistemi di servizi - quasi ovunque si chiamano dipartimenti d salute mentale (dsm) - in cui si può arrivare sino al 30% di trattamenti sanitari obbligatori sul totale dei ricoveri, sistemi in cui il servizio psichiatrico di diagnosi e cura (spdc) che si trova nell'ospedale generale ha sempre le porte chiuse e usa sistematicamente legare al letto le persone agitate con fasce ai polsi, alle caviglie e al petto. All'opposto ci sono gli «Spdc» che da qualche anno si sono raccolti in un «club no-restraint» poiché non usano mai né la contenzione fisica né la chiusura delle porte (su questa tematica era incentrata l'inchiesta del manifesto del 4, 12, 18 e 23 luglio 2008). Tra questi due estremi c'è una maggioranza di servizi che, anche se non sistematicamente, usano la contenzione delle persone e la chiusura. Difficile credere che queste differenze siano dovute a caratteristiche diagnostiche e culturali dei ricoverati. Più realistico credere che siano gli operatori, e soprattutto i loro dirigenti e amministratori, a interpretare diversamente l' inviolabilità del corpo di una persona, il rispetto della sua dignità, la malattia, la cura, il recupero. O forse è più giusto dire che questi operatori, dirigenti e amministratori sono orientati, nelle loro scelte, più dalla difesa dei rapporti di potere esistenti che dalla volontà di cercare strade nuove per evitare che la cura delle persone sia pagata al prezzo dei loro diritti e che il bene della comunità possa essere realizzato attraverso l'esclusione di una parte dei suoi membri. Questo è lo scenario attuale: i vecchi manicomi sono stati fatti fuori, ci sono ampie dimostrazioni che «si può assistere la persona folle in un altro modo» ( lo diceva Basaglia in una conferenza in Brasile nel '79 ) ma le nuove istituzioni e le nuove leve di operatori non sempre riescono o vogliono fare a meno della cassetta degli attrezzi che la psichiatria aveva costruito in manicomio, su persone senza diritti e senza parola. Questo è il nodo di oggi, ed è oltremodo riduttivo rubricarlo come mancata applicazione della riforma o scarsità di mezzi.
Perché riguarda la sinistra
Riguarda la democrazia e i mezzi per farla reale, per farla entrare nella vita di tutti e in tutti i momenti della vita. Riguarda il ruolo dei corpi professionali, che possono essere autori o complici di «crimini di pace» (il titolo di un libro collettivo curato nel '75 da Franco e Franca Basaglia) oppure costruttori di diritti, di processi di inclusione e di spazi di convivenza. Riguarda la politica e soprattutto la sinistra, che da tanto tempo privilegia la gestione dell'esistente e sembra aver rinunciato a coinvolgere i corpi professionali e i cittadini nei progetti di trasformazione che pure si dimostrano possibili.
È con queste premesse che va rimesso in gioco Basaglia e va fatta una rivisitazione attenta degli anni '60 ma soprattutto degli anni '70, che hanno aperto un ventaglio di possibilità nuove che in parte danno ancora frutti. In quell'epoca infatti, a Trieste ma non solo, in psichiatria ma anche in altri campi della medicina e della vita sociale, è iniziata la sperimentazione di invenzioni che in molti casi hanno preso piede: i centri di salute mentale aperti 24 ore, le libere convivenze («abitare assistito» nella neolingua amministrativa) di persone che ricevono l'aiuto di operatori sociali, le cooperative che creano lavoro con e per utenti dei servizi di salute mentale, ex detenuti, tossicodipendenti e ogni sorta di persone che si perderebbero in contenitori assistenziali o nella disperazione della strada (il film Si può fare di G. Manfredonia ha raccontato la storia di una di queste ). Oggi per mantenere aperti e vivi questi spazi e i processi di costruzione della democrazia, è necessario un nuovo inizio e può essere prezioso un passaggio non nostalgico attraverso questa parte poco interrogata degli anni '70.