PRIMA

I nemici di Israele

MEDIO ORIENTE-ITALIA
LA VALLE RANIERO,

Ha detto il primo ministro Netanyau che «Israele non ha un amico più grande di Berlusconi nella comunità internazionale». Se così fosse, davvero la fine di Israele sarebbe vicina. In realtà Israele ha altri amici; ma Berlusconi lo è? Un amico, che fosse sensibile al crimine, richiamerebbe l'amico alla legalità e alla giustizia, non gli offrirebbe omertà, come ha fatto Berlusconi ieri alla Knesset giustificando i massacri di Gaza, documentati dal rapporto Goldstone, e mettendo Israele contro l'Onu e l'intera comunità internazionale.
Un amico, andando nei Territori occupati, avrebbe visto il muro che sfregia e dilania la Palestina, e non avrebbe detto: «Non me ne sono accorto, stavo riordinando le idee»; un amico non avrebbe esternato il suo «sogno» di far entrare Israele nell'Unione Europea, che è un sogno contro di esso. Vuol dire infatti togliere idealmente lo Stato ebraico dal Medio Oriente, sottrarlo, ben più che con il Muro, al rapporto con i popoli vicini, illuderlo che non ci sia più da risolvere la questione palestinese, indurlo a nascondere la sua debolezza nella fortezza europea, e a credere che sia una fortezza.
Gli amici sanno che il destino di Israele, non solo geografico, militare e politico, ma spirituale, è la Palestina, e che solo quando Israele risolverà il problema di essere uno Stato ebraico in Palestina non in virtù della guerra ma della pace e dell'accoglienza reciproca con i palestinesi, con l'Egitto, con la Siria, con «il regno di Mezzo», con la Persia e con ogni altro vicino o erede dell'antica terra di Canaan, avrà definitiva dimora in quella terra; e solo allora le sue speranze temporali ed insieme religiose - cioè il sionismo - potranno dirsi adempiute. Perché rispetto a quelle speranze il modo attuale di stare a Gerusalemme, ad Hebron, a Gerico, a Gaza, sul Golan, nella valle del Giordano è per Israele la più cocente e suicida sconfitta, e per lo stesso sionismo significa un abbandono del significato redentivo del ritorno alla terra e una ricaduta nella legge della violenza.
Allora l'Europa non c'entra? Sì, ma non così. Il 3 maggio 1988 la Camera dei deputati italiana approvava quasi all'unanimità una risoluzione La Valle, Piccoli, Boniver, Napolitano, Rodotà, Masina, Capanna ed altri in cui si impegnava il governo a promuovere con i partners dell'Europa dei Dodici l'ingresso dei due Stati, di Israele e della Palestina, nella Comunità Europea, dopo un convegno internazionale a Montecitorio dove l'ipotesi era stata sviscerata nei suoi aspetti, giuridici e politici, con rappresentanti di Israele, dell'Olp e alla presenza di osservatori europei, sovietici e americani. Ciò supponeva ovviamente la nascita consensuale dello Stato palestinese nel suo territorio e con la sua sovranità, essendo appunto l'Europa una comunità di Stati indipendenti e sovrani. E si trattava di passare dall'idea di una mera spartizione del territorio, all'idea di una condivisione di esso da parte di due popoli e due Stati non confusi ma non divisi.
L'iniziativa risale al tempo in cui si faceva politica, era un progetto politico, non un sogno; e oggi si direbbe che era frutto di «consociativismo». Ma l'idea era appunto di formulare proposte concordi, e di consociare due popoli, in duello mortale tra loro, in una comunità europea estesa oltre i suoi limiti mediterranei, in cui non ci fosse bisogno di difendere alcuna frontiera, perché oltre le frontiere gli Stati si riconoscevano in un unico ordinamento e un unico destino. Il ministro degli esteri Andreotti portò la proposta in Europa, il suo collega francese mostrò di non gradirla; poi è cambiato tutto e ormai di consociare uomini, partiti e popoli non se ne parla nemmeno. E l'italiano che ora va lì promette ai palestinesi non la libertà, ma aiuti economici per un impossibile «benessere».
Provateci ora a risolvere il problema con la prepotenza, con la negazione dei diritti altrui, con la guerra tra popoli e Stati di opposte radici. L'ingresso di Israele, da solo, in Europa, per rendere più plastica e perfezionare la contrapposizione tra «giudeo-cristiani» e arabo-islamici non è un sogno, è un incubo.
Un amico, andando nei Territori occupati, avrebbe visto il muro che sfregia e dilania la Palestina, e non avrebbe detto: «Non me ne sono accorto, stavo riordinando le idee»; un amico non avrebbe esternato il suo «sogno» di far entrare Israele nell'Unione Europea, che è un sogno contro di esso. Vuol dire infatti togliere idealmente lo Stato ebraico dal Medio Oriente, sottrarlo, ben più che con il Muro, al rapporto con i popoli vicini, illuderlo che non ci sia più da risolvere la questione palestinese, indurlo a nascondere la sua debolezza nella fortezza europea, e a credere che sia una fortezza.
Gli amici sanno che il destino di Israele, non solo geografico, militare e politico, ma spirituale, è la Palestina, e che solo quando Israele risolverà il problema di essere uno Stato ebraico in Palestina non in virtù della guerra ma della pace e dell'accoglienza reciproca con i palestinesi, con l'Egitto, con la Siria, con «il regno di Mezzo», con la Persia e con ogni altro vicino o erede dell'antica terra di Canaan, avrà definitiva dimora in quella terra; e solo allora le sue speranze temporali ed insieme religiose - cioè il sionismo - potranno dirsi adempiute. Perché rispetto a quelle speranze il modo attuale di stare a Gerusalemme, ad Hebron, a Gerico, a Gaza, sul Golan, nella valle del Giordano è per Israele la più cocente e suicida sconfitta, e per lo stesso sionismo significa un abbandono del significato redentivo del ritorno alla terra e una ricaduta nella legge della violenza.
Allora l'Europa non c'entra? Sì, ma non così. Il 3 maggio 1988 la Camera dei deputati italiana approvava quasi all'unanimità una risoluzione La Valle, Piccoli, Boniver, Napolitano, Rodotà, Masina, Capanna ed altri in cui si impegnava il governo a promuovere con i partners dell'Europa dei Dodici l'ingresso dei due Stati, di Israele e della Palestina, nella Comunità Europea, dopo un convegno internazionale a Montecitorio dove l'ipotesi era stata sviscerata nei suoi aspetti, giuridici e politici, con rappresentanti di Israele, dell'Olp e alla presenza di osservatori europei, sovietici e americani. Ciò supponeva ovviamente la nascita consensuale dello Stato palestinese nel suo territorio e con la sua sovranità, essendo appunto l'Europa una comunità di Stati indipendenti e sovrani. E si trattava di passare dall'idea di una mera spartizione del territorio, all'idea di una condivisione di esso da parte di due popoli e due Stati non confusi ma non divisi.
L'iniziativa risale al tempo in cui si faceva politica, era un progetto politico, non un sogno; e oggi si direbbe che era frutto di «consociativismo». Ma l'idea era appunto di formulare proposte concordi, e di consociare due popoli, in duello mortale tra loro, in una comunità europea estesa oltre i suoi limiti mediterranei, in cui non ci fosse bisogno di difendere alcuna frontiera, perché oltre le frontiere gli Stati si riconoscevano in un unico ordinamento e un unico destino. Il ministro degli esteri Andreotti portò la proposta in Europa, il suo collega francese mostrò di non gradirla; poi è cambiato tutto e ormai di consociare uomini, partiti e popoli non se ne parla nemmeno. E l'italiano che ora va lì promette ai palestinesi non la libertà, ma aiuti economici per un impossibile «benessere».
Provateci ora a risolvere il problema con la prepotenza, con la negazione dei diritti altrui, con la guerra tra popoli e Stati di opposte radici. L'ingresso di Israele, da solo, in Europa, per rendere più plastica e perfezionare la contrapposizione tra «giudeo-cristiani» e arabo-islamici non è un sogno, è un incubo.

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