CONTROPIANO

Sit-in all'ambasciata Usa Ci riceva Palazzo Chigi

GLI OPERAI ALCOA
TORBIDONI GIULIA,

Sono tornati a protestare a Roma gli operai sardi di Alcoa: ieri si trovavano davanti all'ambasciata statunitense. La volta precedente erano stati presi a manganellate. Ieri, invece, hanno avuto in risposta il silenzio dell'ambasciatore americano.
Un centinaio di persone: operai, sindacalisti, sindaci del Sulcis Iglesiente, politici dell'isola, tra cui il presidente della Regione Ugo Cappellacci, e quella del Consiglio regionale, Claudia Lombardo. Intanto a Portovesme, nel cagliaritano, i colleghi scioperavano e presidiavano la fabbrica.
Mancano pochi giorni al verdetto di Alcoa sulla chiusura o meno degli impianti in Italia: a Portovesme e a Fusina (Venezia). La multinazionale americana, infatti, deve dire se accetta o meno le condizioni del ministro per lo sviluppo economico, Claudio Scajola, sul prezzo dell'energia elettrica: da 70 euro per megawatt all'ora a 30. Intanto, però, l'azienda ha avviato le procedure della cassa integrazione per i suoi dipendenti, alimentando così la paura della chiusura degli impianti.
«Alcoa non se ne deve andare. La situazione diventerebbe ingovernabile - dice Roberto Forresu, Fiom Cgil - ci auguriamo che il governo si faccia valere per evitarlo». «La chiusura significa tante cose tutte insieme: dal non sapere più come mantenere la famiglia alla depressione. In più, in Sardegna non è come sul continente, perché è più difficile spostarsi per trovare un altro lavoro e fare valere la propria professionalità», dice l'operaio Giuseppe Puddu.
Fino a 14 anni fa l'impianto di Portovesme, raccontano gli operai, era a partecipazione statale. Poi è stato venduto ad Alcoa, un colosso mondiale dell'alluminio. «In realtà lo stato gliel'ha regalata la fabbrica», dice qualcuno. Con la privatizzazione, «i posti di lavoro sono stati dimezzati, sono cresciuti i carichi di lavoro e si è imposta la competizione. Una multinazionale non si accontenta di guadagni standardizzati, punta sempre al top e quando ci arriva se ne va perché può guadagnare ancora di più da un'altra parte». E infatti nel 2013 Alcoa aprirà un impianto in Arabia, come sottolinea anche Roberto Puddu della Cgil.
«Dalla Fiat all'Alcoa la logica è la stessa - dice Giorgio Cremaschi, segretario nazionale Fiom, partecipando al sit-in - queste multinazionali non possono fare le cavallette: venire, godere di interventi pubblici e andare via».
Il pericolo c'è e gli operai lo sanno. Alcuni azzardano un'ipotesi: «tornare al controllo statale, se Alcoa lasciasse». L'importante, però, è che non si fermino le fabbriche, «il lavoro c'è, lo stabilimento è a ciclo continuo e se lo fermi poi ci vogliono tanti soldi per farlo ripartire», dice Giuseppe. Per alcuni operai, Alcoa vuole andarsene e chiudere gli impianti, così da ostacolare la produzione italiana in futuro e portarsi dietro tutto il mercato.
Secondo l'ex ministro del lavoro, Cesare Damiano, intervenuto al presidio, «l'azienda deve porre fine alla cassa e dire cosa vuole fare. Ma soprattutto si deve aprire un confronto con il consiglio dei ministri perché ora il tavolo deve essere quello politico e non quello tecnico dei ministeri». Un punto, questo, condiviso anche dal sindacato e dai lavoratori. Ma non dal governo. In serata, infatti, il ministero del lavoro fa sapere di avere convocato una riunione per parlare di Alcoa. Sarà il 20 gennaio. «È assurdo che si muova solo il ministero - commenta Cremaschi - si muova la presidenza del Consiglio».

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