L'Etiopia è cambiata. Il triste passato recente è ormai alle spalle. Sono trascorsi diciotto anni da quando il tiranno comunista Menghistu è dovuto scappare, finendo di seminare per strada i cadaveri dei suoi oppositori perché fossero d'esempio agli altri cittadini. Ed è lontana un quarto di secolo la carestia che uccise un milione di persone e sconvolse il mondo, riuscendo persino a urtare la sensibilità di popstar internazionali. Oggi i raccolti sono buoni e nelle città il boom edilizio testimonia del rapido sviluppo. Una ridda di nuovi palazzi esplode nel centro di Addis Abeba, una sequenza di pompe di benzina viene inaugurata, file di Suv americani percorrono le nuove arterie della capitale nell'ora di punta. L'Etiopia fiorisce, si ammoderna e si industrializza. Le ferite, certo, restano. Ma oggi il paese si attrezza per rivivere i fasti della sua storia antica e moderna, quando le dinastie imperiali difesero queste terre dall'avanzata musulmana, costruendo fortezze e templi. E diedero vita ad una propria, fiera cultura, che permise all'altopiano abissino di essere l'unica terra d'Africa a uscire quasi indenne dalla colonizzazione europea.
L'abuso della parola «diritto»
Nei palazzi governativi lo spiegano bene, con pazienza e piglio professorale: dalla caduta di Menghistu, nel 1991, la crescita della nazione è stata costante. Il governo, negli anni, si è guadagnato la stima degli stati occidentali. Il paese vanta una costituzione all'avanguardia in fatto di democrazia. Tanto che su 106 articoli, la parola «diritto» è ripetuta ben 141 volte. Il Fronte popolare rivoluzionario e democratico etiope, il partito al potere dalla fine del comunismo, ha lavorato duro anche per superare le differenze tribali interne. La repubblica, basata sul federalismo etnico, spartisce risorse e potere tra le minoranze. La lotta a povertà e fame è una priorità. Nelle campagne, dove ancora vive l'85% della popolazione, le condizioni di vita sono migliorate sensibilmente. Sono state sviluppate infrastrutture e strade, centri medici, scuole e sistemi agricoli. Anche nei centri urbani, i successi di questa amministrazione sono evidenti. Edilizia popolare e lavori sociali, salario minimo per i dipendenti pubblici, livelli di criminalità tra i più bassi dell'intera Africa e da fare invidia a molte città europee le conquiste di questi anni. Inoltre, la lotta alla corruzione e la vita frugale per parlamentari e ministri distinguono la classe politica etiope dal resto dell'Africa: lo stipendio di un deputato non supera i 2.500 euro l'anno e il capo del governo guadagna poco di più. Infine c'è l'economia. Di nuovo, l'Etiopia vola. «La crescita economica è a doppia cifra da anni», è il ritornello nei dicasteri.
Al centro del miracolo sta il primo ministro, guida dello stato da 18 anni. A differenza della maggior parte dei leader africani, Meles Zenawi è un iconoclasta. È lui il volto della «rinascita etiope», ma le strade non sono marchiate da sue gigantografie. Eppure quest'uomo ha una storia che, di per sé, sarebbe leggenda: studente di medicina ad Addis Abeba negli anni '70, abbandona l'università per unirsi ad un gruppo ribelle marxista-leninista. Dalle montagne del Tigray, la sua regione d'origine, guida per tre lustri la lotta libertaria contro l'oppressivo regime di Menghistu. Fino a farlo cadere. Poi, con un colpo d'abilità, fiuta il vento e abbandona la vocazione comunistoide filo-albanese. Vince le ansie giovanili e apre all'occidente, al capitalismo. Lentamente, si guadagna la stima degli Stati uniti e del Regno unito. Ricuce i rapporti post-coloniali con l'Italia, da cui si fa restituire persino l'obelisco di Axum. Dopo il 2001, diventa un interlocutore privilegiato nella lotta al terrorismo. Garantisce equilibrio - e cristianità - nel Corno d'Africa dove la minaccia islamica si fa pressante.
Ecco l'Etiopia, oasi di stabilità in una regione tormentata da conflitti e despoti. La retorica dell'ottimismo è talmente insistita che viene quasi da crederci. Il paese va raccontato così, tra bellezze turistiche, diversità culturali e progresso. Chi non lo fa è miope, oppure in malafede. Chi solleva dubbi è un nemico della nazione, un mercenario al soldo della rivale Eritrea. O un invidioso avventuriero.
Lontano dalle notizie serali della televisione di Stato, tuttavia, la storia mostra qualche crepa. Zenawi l'affidabile ha qualche problema con il rispetto dei diritti umani. Il suo governo proprio non ce la fa a tollerare chi la pensa diversamente. Nel 2005, una tornata elettorale contestata si è conclusa con la polizia che spara sulla folla e fa circa duecento civili morti. La commissione d'inchiesta «indipendente» voluta dal governo ha assolto l'operato delle forze speciali. Durante i lavori, però, molti dei suoi membri sono scappati all'estero e hanno denunciato pressioni per archiviare il caso. I leader dell'opposizione, dopo un paio d'anni passati in galera sulla base di presunte accuse di tradimento, sono stati portati davanti ad un tribunale-farsa. Condannati al carcere a vita e poi graziati con un editto. Qualcuno è rientrato nei ranghi e oggi viene esibito come trofeo, nello zoo della libertà di pensiero. Altri sono scappati all'estero e hanno perso contatto con la popolazione. Chi ha continuato a fare opposizione, è stato ri-arrestato o subisce costanti minacce. Pochi giorni fa, 5 persone sono state condannate a morte e altre 33 al carcere a vita, accusate di fare parte dell'organizzazione terroristica Ginbot 7 e di essere dietro ad un tentativo di destabilizzare il governo, uccidendone alcuni membri. Gli accusati hanno dichiarato di essere stati sistematicamente torturati in prigione e così costretti a confessare. Secondo diversi analisti, il complotto sventato è solo una farsa per eliminare avversari scomodi e dare un esempio alla popolazione.
Intanto, la macchina legislativa è stata affinata con una serie di nuove leggi. Oggi il governo può condannare qualsiasi forma di opposizione pacifica accusandola di terrorismo, mentre la stampa indipendente è stretta in una morsa. Alle Ong internazionali è invece impedito di operare nell'ambito dei diritti umani o nelle regioni considerate a rischio. La legge vale per tutti, ma soprattutto per i somali dell'Ogaden. In questa regione sud-orientale, l'esercito di Addis Abeba combatte da anni una guerra a bassa intensità contro ribelli indipendentisti ed è accusato di continue atrocità contro i civili, rei di appoggiare gli insorti. Meles, peraltro, è molto attento. Non ha dimenticato i tempi della sua lotta contro il tiranno. E la usa a proprio vantaggio: le università, le scuole e tutti gli uffici pubblici sono farciti di spie, messi sotto controllo. Chi parla liberamente, è minacciato, malmenato, arrestato o fatto sparire.
Lavoro solo ai tesserati
Ai cittadini è richiesto un silenzio complice. Così si evitano problemi. La società etiope è sempre più satura di fantasmi, uomini e donne dediti solo al sopravvivere quotidiano. L'economia sarà pure in crescita, ma nelle case questo benessere non si vede. I prezzi dei generi alimentari rincarano veloci. Le importazioni, invece, rallentano. La valuta internazionale non basta al governo che per poche settimane e il livello di modernizzazione è ridicolo. La vita nelle periferie urbane è disperata, la classe media tende a scomparire. Nelle campagne, i contadini sopravvivono di un'agricoltura di sussistenza la cui gestione è interamente nelle mani dei rappresentanti del potere. Chi non si allinea, perde persino il diritto alle semenze per coltivare. Negli uffici di governo, la tessera del partito è il requisito per non perdere il lavoro. Nelle scuole, i professori sono indottrinati a diffondere il verbo democratico-rivoluzionario agli studenti. Il federalismo è una mistura di clientelismo e spartizione di danaro tra i gruppi fedeli al partito al potere.
Chi si chiama fuori è sospettato. Messo nell'angolo e poi licenziato. Le voci di opposizione svaniscono. Giornalisti e difensori dei diritti umani sono intimiditi, picchiati. Infine costretti a fuggire di notte, oltre frontiera, prima di essere incarcerati. Questa repressione si scioglie nell'amaro anestetico delle cancellerie internazionali, zitte pur di non perdere la fedeltà strategica dell'Etiopia nel Corno d'Africa. Così, il paese si prepara alle prossime elezioni generali, nel maggio 2010. Come nelle amministrative dello scorso anno, è già pronta la commedia. Chi ne discute, però, è un bugiardo. L'Etiopia è tutta lì, nella sua crescita economica, nel rilancio del turismo, nell'armonia intertribale. Di questo bisogna parlare. Perché l'Etiopia è cambiata.