LETTERE E COMMENTI

Quando le merendine ci mangiano

CASTELLINA LUCIANA,

«Può un termine così ambiguo e compromesso come 'gastronomia' conquistare nuova credibilità, vedersi riconosciuta una propria dignità culturale, una dimensione sociale e scientifica pubblica e condivisibile»? A questo interrogativo, retoricamente avanzato da Nicola Perullo, docente di estetica all'Università delle scienze gastronomiche di Pollenzo (L'altro gusto, Ed. Ets 2008) creata da Slow Food, ha ormai risposto adeguatamente e da tempo il suo fondatore a beneficio non solo di una piccola nicchia (in primis i lettori de il manifesto, per ragioni storico-biografiche), ma anche di una bella fetta di opinione pubblica più sensibile ai problemi del rapporto con la natura, cui la gastronomia è intimamente legata. Sicché quando Carlin Petrini si ripropone orgogliosamente come «gastronomo», sappiamo già che in realtà si tratta di un filosofo e di un politico. Politico innanzitutto, se siamo ancora convinti - e lo siamo - che questa non si dà senza una visione del mondo e della storia.
Queste cose Carlo Petrini le aveva già ridefinite con chiarezza nel suo penultimo libro Buono, pulito e giusto (Einaudi, 2005). Con la sua ultima opera, Terra madre. Come non farci mangiare dal cibo (Edizioni Slow food-Giunti, 2009), il suo discorso fa un bel salto qualitativo, perché non si tratta più solo di un'analisi, né dell'enunciazione di un progetto: si parla di un movimento già in atto, Terra madre, per l'appunto, che raccoglie oramai 1.600 comunità locali, sorte in 153 paesi di tutti i continenti, cresciute attraverso i tre storici incontri biennali di Torino cui migliaia di contadini hanno già partecipato a partire dal 2004 (ce li ha stupendamente raccontati il film dal nome omonimo di Ermanno Olmi e si possono vedere anche nel Dvd Gente di Terra Madre, allegato al volume). Cui si sono nel frattempo collegati altri soggetti: consumatori, scienziati, cuochi, chi allestisce orti : da quelli scolastici iniziati da Sam Levin nel Massachussetts, a quello, alla Casa Bianca, di Michelle Obama, un'iniziativa che non è solo agricola ma culturale, per riabituare al rapporto con la natura - scomparsa dalla nostra vita e dalle nostre metropoli - ai suoi cicli, alle sue leggi. Una rete locale e globale, impegnata a conservare i saperi antichi e insieme ad utilizzare le opportunità nuove che il web offre per trarre forza dal reciproco collegamento. Un embrione di comunità che ha fatto propria la definizione che due secoli fa alla gastronomia dette il famoso Brilliat Savarin, passato alla storia come grande chef, ma, anche lui, in realtà filosofo: «la gastronomia è la conoscenza ragionata di tutto ciò che si riferisce all'uomo in quanto egli si nutre».
Mangiare è infatti molto di più che nutrirsi: è un dato culturale e storico, innanzitutto, tant'è che quanto più resta attaccato agli emigrati della loro patria d'origine è proprio il cibo, ovunque. Ma è soprattutto un «atto agricolo», e poiché l'agricoltura - cioè la terra - è tornata al centro dell'attenzione politica della nostra epoca se a Copenaghen fossero stati seri avrebbero dovuto occuparsene, perché è proprio da qui che occorre partire per affrontare la catastrofe climatica: perché è il moderno modo di coltivarla, la marginalizzazione dei contadini costretti ad un esodo forzato di proporzioni bibiliche, che hanno devastato la terra, da cui pure viene l'ossigeno e l'energia pulita. A Copenaghen non se ne sono occupati e se ne occupano in pochi, perché l'agricoltura, così come il cibo che essa produce, così come la cultura, non è una merce come le altre, è anomala: perché non veicola solo valori economici e il mercato non la sa perciò trattare. E infatti, quando si è allargato fino a coinvolgere tutti i rapporti sociali ed umani, bruciando ogni autonomia, ha prodotto un disastro. Dopo due secoli di strapazzo si è prodotta una «sconfitta epocale» della modernità - come scrive Petrini. Possibile che nel dibattito politico - anche della sinistra - resti secondario, quando non ignorato, il fatto che nonostante il tanto sbandierato progresso tecnico, le tante «rivoluzioni verdi» che la Banca Mondiale ha forzato giù per la gola ai contadini del terzo mondo in nome della quantità di cibo che avrebbero garantito per sfamare l'umanità il numero di persone che non hanno cibo a sufficienza è arrivato a un miliardo di esseri umani e solo in India 20.000 coltivatori all'anno si suicidano perché piegati dal rullo compressore dell'agroindustria che invade la terra e che vorrebbe trasformarli in lavoratori a cottimo al servizio delle multinazionali?
Il punto è proprio l'agroindustria - scrive Petrini - che ha ucciso la biodiversità (negli Stati uniti in ottanta anni sono spariti il 92,8% delle specie di insalata, il 90,8 di mais, l'86 di mele). È uno degli aspetti dell'assassinio perpetrato, di questa contemporanea riedizione del vecchio colonialismo che ha imposto i propri prodotti (usando anche ipocritamente i famosi aiuti umanitari, invano denunciati già dagli anni '80 contro i tanti nostri pelosi caritatevoli concittadini occidentali che per questo ci hanno accusato di disumanità), promotori di devastanti monocolture da esportazione.
De-industrializzare il cibo, dunque, restituirgli la sua dimensione naturale, rimetterlo nelle mani delle comunità locali, saltando l'intermediazione e costruendo altri rapporti internazionali. Questa è Terra Madre, già esperienza concreta (il libro indica decine di esempi di azioni realizzate con successo) che sfatano l'impostura che il cibo non industrialmente prodotto sia troppo caro, buono per nicchie di ricchi mercati occidentali, non alla portata di tutti. Costa di più solo se la contabilità è miope, sicché non si conteggiano i costi immensi del guasto ecologico (trasporti, devastazione della terra, salute, rifiuti) e sociale (urbanizzazione selvaggia e disoccupazione); o perché si pagano a lungo termine e a pagarli non è chi trae il profitto, l'impresa, ma la collettività tutta.
Non è facile, certo, è una sfida complicata che comporta un impegno di tutti - scrive Petrini - ma possibile. Chi ci rimetterà saranno le grandi catene di distribuzione che vivono di agro-industria alimentare, coi loro costosi imballaggi, sprechi (solo in Italia 4.000 tonnellate al giorno), spazzature, immagazzinamenti, refrigerazione, tutte cose che mangiano la natura. Per cui alla fine è il cibo - le mille merendine e confezioni dei supermarket che occultano nella pubblicità l'origine di quell'alimento - che mangia noi.
Terra Madre, ridando soggettività e protagonismo a questa specie decimata e mortificata che sono diventati ovunque i contadini - gli «ultimi» - ha accolto la sfida. È cosa piccola, certo, a fronte dei meccanismi del globo. Ma anche alla caduta dell'Impero Romano si è ripartiti - scrive Petrini - dalle «pievi»: zone di autonomia locale, dove in maniera indipendente si sono sviluppate nuova cultura, nuove regole, nuovi modi di intendere la civiltà. Se vogliamo rifondare la politica per farne uno strumento di trasformazione del mondo dovremmo tenerne conto.

Supporta il manifesto e l'informazione indipendente

Il manifesto, nato come rivista nel 1969, è sinonimo di testata libera, indipendente e tagliente.
Logo archivio storico del manifesto
L'archivio storico del manifesto è un progetto del manifesto pubblicato gratis su Internet e aperto a tutti.
Vai al manifesto.it