Proviamo a raffigurare in modo semplificato i termini del prossimo confronto di Copenaghen. Da una parte poniamo il signor Ray Anderson, per esempio, l'industriale statunitense della moquette che ha rivoluzionato il modo di produrla e che si pone realisticamente di raggiungere entro il 2020 una impronta ecologia zero delle sue fabbriche e, contemporaneamente, un ulteriore aumento delle vendite grazie al modello cool: fresco, antiasma, resistente... La filosofia di Anderson è: «La sostenibilità è un modello di business migliore, la strada migliore per migliorare i profitti». Insomma, la dimostrazione vivente della applicazione della green economy, della celan-tech, della soft-economy, del capitalismo naturale e dal volto umano.
Dall'altra parte del tavolo dei negoziati poniamo, per esempio, Pedro, un contadino ecuadoregno, che chiede di poter buen vivir nel rispetto della sua nuova costituzione che afferma: «La Natura o Pachamama, dove si riproduce e si realizza la vita, ha diritto a che si rispetti integralmente la sua esistenza al mantenimento e alla rigenerazione dei suoi cicli vitali, strutture, funzioni e processi evolutivi» (Capitolo VII, art. 71, «Diritti della Natura»).
Di fronte a comportamenti di attori sociali così virtuosi, il compito delle autorità di mediazione (le agenzie dell'Onu) appare a prima vista straordinariamente semplice: Pedro rinuncia alla moquette fino a che Anderson non riesce a chiudere il ciclo delle sue produzioni (materie prime e flussi energetici). Per contro, Anderson non vende moquette fuori dal cerchio dell'equilibrio ecologico. Regolazione e mercato, sostenibilità e sviluppo sembrano trovare composizione.
Perché, allora, non si firma il nuovo trattato sulle emissioni dei gas climalteranti a Copenaghen?
Perché anche un ideale «sviluppo sostenibile» presenta due problemi insormontabili se si rimane dentro le regole del mercato. Uno, grande come una casa, si chiama equità. L'altro, più subdolo, si chiama «effetto rimbalzo» o «trappola tecnologica» o «paradosso di Jevons».
Anche Pedro, tornando alla nostra parabola, ha diritto alla moquette, ma nemmeno i migliori industriali potranno mai fornirla a tutti i sei miliardi e rotti di persone con tanto di pavimento su cui incollarla, un tetto sopra per proteggerla e magari gli allacciamenti all'elettricità per l'aspirapolvere e l'acqua corrente per lavarla ogni tanto. Quindi, l'equità sociale, il diritto al cibo, la «giustizia energetica» e così via, non sono garantiti dall'ecologicità delle singole produzioni e merci.
Considerando la limitatezza naturale delle risorse e dell'energia utile disponibile, Pedro e Anderson dovrebbero prima mettersi d'accordo su quali bisogni prioritariamente soddisfare, cioè, quali beni di consumo produrre e a favore di chi. E qui il compito dei mediatori si fa davvero difficile sapendo che il mercato guarda alla domanda solvibile, mentre il buen vivir risponde all'economia della natura e chiede un'economia ecologica. La ricerca dell'equità distributiva non può più essere trovata verso l'alto, allargando la torta, aumentando la piramide dei consumi. Semplicemente perché non ce n'è per tutti - di petrolio, di uranio, di ferro, di fosfati, di coltan, di litio... persino di acqua, di ossigeno, di sole (già a questi livelli di domanda).
Inoltre, c'è un altro inconveniente; i meravigliosi ritrovati della scienza e della tecnica sono in grado di ridurre gli impatti ambientali per unità di prodotto (per metro quadrato di moquette, nel nostro caso), ma se i mercati si dovessero allargare, le quantità totali di prelievi di materie prime, di rifiuti e di emissioni inquinanti inevitabilmente aumenterebbero. La relativa dematerializzazione delle produzioni si scontra con l'aumento assoluto dei volumi delle merci immesse nel mercato, annullando i benefici delle tecnologie più pulite (meno sporche).
Ecco i motivi per cui sarà improbabile che a Copenaghen le lobby termoindustriali diano via libera ai governi per un accordo davvero utile alla preservazione della biosfera: c'è una irriducibilità dei «servizi ambientali» alla logica del mercato, almeno fino a che le risorse naturali non smetteranno di essere trattate come fattori produttivi, materie inerti, appropriabili, alienabili. Per «salvare il pianeta» bisognerebbe allargare la sfera dell'etica alla natura - scriveva Aldo Leopold esattamente sessanta anni fa: «Una etica della terra riflette l'esistenza di una coscienza ecologica che, a sua volta, riflette il convincimento della necessità di una responsabilità individuale per la salute della terra» (Almanacco di un mondo semplice, 1949).
Esattamente quanto è avvenuto in Ecuador e Bolivia con la costituzionalizzazione della natura come soggetto di diritti.
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