LETTERE E COMMENTI

Come si «valuta» una ricerca?

CASTELFRANCHI CRISTIANO

La valutazione non è una minaccia, ma un'operazione «promozionale» di chi crede in una ricerca e nella sua importanza e vuole rilanciarla migliorandone la qualità. Nel decreto di legge Gelmini sull'università, ma a dire la verità anche nei suoi provvedimenti sulla scuola, pare invece che sia uno strumento disciplinare (come il grembiule ed il voto in condotta; o il bastone e carota alla Brunetta verso i «dipendenti pubblici»). Fa parte di una più generale politica di subordinazione e di intimidazione.
Visione e messaggio completamente sbagliati, tipici di questo governo, e non accidentali. Il ddl Gelmini conferma una tendenza ormai nota: a questa maggioranza non interessa la ricerca scientifica, il capitale cognitivo ed umano, la cultura, lo sviluppo tecnologico competitivo, le risorse del futuro. Il problema non è di «investimento» bensì di tagli. Ed infatti non viene messa una lira aggiuntiva sulla ricerca. Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano è stato l'unico ad avere parlato di conoscenza come del petrolio del futuro.
Intendiamoci, non che il mondo universitario non si meriti in parte anche questo, date le prassi clientelari e localistiche (in senso geografico, disciplinare, e di bottega), l'assurda moltiplicazione di sedi, facoltà, cattedre e la scarsa attenzione al merito, alla carriera e ruolo dei giovani talenti. Diciamo che presta facilmente il fianco. Ma ciò che è davvero inaccettabile, oggi, è quell'attitudine meramente conservativa di certi nostri settori - in primis quelli umanistici - che rifiutano tutti gli indici di valutazione della ricerca e si rifugiano in una sorta di ineffabilità della valutazione o nella mera valutazione soggettiva dello studioso.
È vero, non tutto è riducibile ad indici e ciò deve essere ben chiaro quando si parla del Ddl Gelmini. Il successo di una ricerca, la sua qualità, non può essere valutata con la discrezionalità accademica e nemmeno con l'audience o con il best-seller (come accade nella Tv, nel cinema, oppure nella letteratura). Il punto è che bisogna proporre comunque un metodo operativo e di assunzione.
Nel dibattito sulla valutazione si dimentica spesso che essa è intrinseca alla ricerca. È una prassi normale nel nostro mondo. Si basa sul «peer review», cioè il giudizio dei colleghi formulato in maniera anonima, sulla circolazione delle tesi e infine sulla promozione sociale e scientifica in base alla loro validità. Anche chi critica, con molte ragioni a mio avviso, le ipotesi proposte dal Ministero, non deve però dimenticare che è opportuno istituzionalizzare la valutazione, favorendo la nascita di una prassi regolare e di sedi che valutino i risultati, i progetti, i gruppi e i singoli. La vera questione è che in Italia esiste un problema di management della ricerca, di finanziamento e indirizzo. Latitano le scelte decisive a livello politico-amministrativo,
Data questa situazione, perché esplichi tutte le sue virtù, la valutazione dovrebbe essere condotta seguendo pochi, ma significativi, criteri di base. Attivare la partecipazione delle comunità scientifiche, innanzitutto. Bisogna capire che la valutazione è uno strumento naturale, non un'operazione ispettiva, da usare per altri fini che non siano quelli della conoscenza. L'operazione da fare è culturale. In Italia si devono abbandonare gli atteggiamenti «difensivi» che sono la risposta perdente a quelli «ispettivi».
Temo che il retroterra al quale si ispirano le ipotesi della Gelmini sia quello di una mentalità burocratica, da economisti, se non proprio da tecnocrati. Per quanto buoni siano, bisogna avere consapevolezza critica dei limiti degli indicatori, evitando di applicarli meccanicamente ed unilateralmente.
In caso contrario, si rischierebbe di diffondere una spinta, nei più giovani e non solo in loro, a pubblicare (il famigerato «publish or perish»), in modo frenetico e soprattutto frammentato o a fette (la cosiddetta «salami science»). Se si vuole basare le carriere meramente su questo, come sembra, bisogna anche dire che questo orientamento sarà distorcente, nocivo, e produrrà parecchia ricerca irrilevante.
Se, al contrario, si volesse fare una politica della ricerca accorta, allora bisogna chiarire che gli indicatori - alcuni dei quali sono utili, come l'H-Index, le citazioni, o l'impatto - hanno valore e pesi diversi a seconda dell'area disciplinare. Questa è una condizione essenziale: la valutazione deve essere ponderata per disciplina. In alcuni ambiti, i libri sono più importanti delle riviste e viceversa.
In secondo luogo, deve essere multi-dimensionale. Non esistono solo le pubblicazioni come «risultati» («prodotti» sic!) della ricerca. Infine, la valutazione deve essere contestualizzata disciplina per disciplina. Una rivista di biologia può non essere di grande pregio pur avendo un Impact Factor maggiore della migliore rivista di linguistica).
Questi sono i tre momenti di un giusto e necessario processo di valutazione che resta l'espressione dell'appropriazione capitalistica della conoscenza attraverso il «capitale cognitivo» e le «tecnologie della conoscenza». La valutazione rappresenta pur sempre la subordinazione della formazione e della ricerca a logiche più o meno esplicite di produttività, efficienza, utilizzo economico, innovazione dei prodotti. Ciò non impedisce di usarla in modo cauto e soprattutto critico.
Chi decide deve assumersi le proprie responsabilità. Bisogna pagarne le conseguenze nel bene e nel male: gli enti di ricerca non devono ricevere fondi se i risultati delle loro scelte hanno seriamente compromesso il livello di eccellenza della loro struttura. La missione primaria della ricerca deve comunque restare lo sviluppo della conoscenza come un fine in sé. Un vecchio vizio della specie Homo sapiens sapiens.
* Università di Siena e Direttore Istituto Scienze e Tecnologie della Cognizione - Cnr

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