CULTURA & VISIONI

Il nostro primo incontro a Lipsia davanti al sogno della «Taranta»

RICORDI Cecilia Mangini, noi «demartiniani» contro la censura
MANGINI CECILIA,

Il mio primo incontro con Gianfranco era stato solo virtuale. Era il 1961, al festival di Lipsia Maria di Nardò faceva fascinosamente il suo ingresso sullo schermo dibattendosi per terra in preda al tarantismo al ritmo scatenato della meloterapia. Girare La taranta era stato il grande sogno di tutti i documentaristi demartiniani: lui c'era riuscito, io no, io a Galatina avevo dovuto rinunciare alle riprese, paralizzata dal no indiscutibile dell'arcivescovo di Otranto. Perché poi si dovesse chiedere proprio a un arcivescovo il permesso di girare in una chiesa sconsacrata oggi può sembrare un mistero irrisolvibile, purtroppo in mezzo secolo ci siamo dimenticati di come la Chiesa sapesse dimostrare a oltranza il suo potere. Di quanto lo dimostri oggi, sono piene le cronache italiane.
Scorrevano le immagini di uno dei più bei documentari della nostra cinematografia, e io ero lì in platea al Leipziger Kurtfilmwoche divisa tra l'ammirazione ed il rimpianto di non aver pensato alla straordinaria possibilità di riprendere la cura domiciliare di quel male millenario. Eppure, se mai vi capiterà di dare un'occhiata ai vari libri che ci sono stati dedicati, pagine e pagine discettano di noi, il cosiddetto «gruppo dei demartiniani», quei documentaristi che avevano dedicato uno o più lavori al Meridione e ai suoi problemi irrisolti, muovendosi sulla falsariga delle ricerche di Ernesto De Martino, il più grande etnologo italiano del Novecento. Quante volte Gianfranco e io abbiamo ragionato insieme sul nostro debito con libri come Morte e pianto rituale nel Mezzogiorno, La terra del rimorso, Sud e magia, e mai ho dimenticato il disagio a mezza bocca di Gianfranco per avere affidato il testo de La taranta a Salvatore Quasimodo e non a De Martino, che compare genericamente nei titoli di testa come consulente. Peggio avevo fatto io che nei titoli di testa di Stendalì, un documentario sul canto funebre in lingua grica del Salento suggerito da Morte e pianto rituale nel Mezzogiorno, De Martino non lo avevo neanche nominato.
Tutti noi, «demartiniani» e no, tra la fine dei Cinquanta e i primi anni Sessanta ci sentivamo collegati tra di noi dalla comunanza dei progetti, dalla sfida alla censura, dalla necessità di fare sponda contro i troppi «arcivescovi di Otranto & C.» Lui, Gianfranco, si stava scontrando contro il produttore cinematografico più dispotico e Usadipendente, Dino De Laurentis. Era iniziata l'agonia del documentario e nessuno di noi aveva il coraggio di accorgersene. Peggio per noi. Siamo finiti non con un bang ma con un lamento.
Chi aveva il fiato lungo e l'energia e l'ostinazione di difendere la verità come bene primario nel suo rapporto con il pubblico ha detto malinconicamente addio al documentario e si è dato a scrivere sceneggiature, a girare film o inchieste per la tv (allora) di stato. Questa difesa Gianfranco l'ha portata avanti a oltranza, affidandola a dodici lungometraggi, e va bè, bravo a realizzarli, ma il merito, voglio sottolinearlo, voglio gridarlo ad alta voce è che nessuno di questi film, dico nessuno, è un cedimento alle esigenze commerciali, alla commedia all'italiana, ai «Natale, Ferragosto, Carnevale a...». Agendo con il rimpianto per il documentario in coma e con la testardaggine orgogliosa di sentirsi nato al cinema come documentarista.
*Prima donna regista sulla scena italiana del dopoguerra, nei suoi film documentari racconta il sud (Stendalì, Tommaso, Maria e i giorni) e le periferie romane dei «ragazzi di vita» pasoliniani (Ignoti alla città), smascherando le contraddizioni dell'Italia dell'epoca.

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