POLITICA & SOCIETÀ

Naufraghi da non buttare

COMMENTO
SOSSI FEDERICA,

«C'è poco da rallegrarsi. Siamo stati sotto processo per cinque anni, soltanto per aver salvato delle vite umane». Commenta così Elias Bierdel la decisione del Tribunale di Agrigento che assolve con formula piena dall'accusa di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina Stefan Schmidt, Vladimir Dachkevitce e lo stesso Bierdel, rispettivamente comandante della nave, primo ufficiale e presidente dell'associazione umanitaria Cap Anamur per la vicenda che li aveva visti coinvolti nel salvataggio di 37 naufraghi nel Canale di Sicilia. Era il 20 giugno 2004 quando l'equipaggio della nave tedesca Cap Anamur, dell'omonima organizzazione non governativa con sede a Colonia, soccorreva in acque internazionali, tra Lampedusa, Malta e la Libia, 37 naufraghi di una piccola imbarcazione alla deriva, li faceva salire a bordo ed iniziava la sua battaglia in mare per la loro sopravvivenza: tre settimane di attesa, una disputa diplomatica che coinvolge tre paesi - l'Italia che vieta l'approdo, Malta chiamata in causa dall'Italia perché considerata il porto più vicino al luogo del salvataggio, la Germania che dapprima sembra voler accogliere i naufraghi e in seguito abbandona al loro destino naufraghi, equipaggio, comandante e armatore della nave - poi infine l'approdo a Porto Empedocle e l'inizio di una nuova odissea. Le accuse di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina per i responsabili della vicenda, arrestati e poi processati per direttissima, mura, reti, stanzoni in cemento senza comunicazione con l'esterno, pullman per i trasferimenti da una detenzione all'altra per i naufraghi, sino all'aereo dell'espulsione finale: tutti in Ghana, da dove secondo l'allora ministro dell'interno Pisanu erano arrivati, nonostante le loro richieste d'asilo, nonostante le proteste dell'Onu, e in tutta fretta, il giorno prima che la Corte Europea dei diritti dell'uomo notificasse l'ordine di sospendere un eventuale allontanamento forzato. Poco di cui rallegrarsi se si pensa all'intera vicenda e ad essa come punto d'inizio di tutto quello che ne è conseguito. Naufraghi, continuava a chiamare le 37 persone che la sua associazione aveva soccorso Elias Bierdel; forse profughi, dal momento che molti di loro si dichiaravano sudanesi, sussurravano tra le righe alcuni dei giornalisti della stampa internazionale e nazionale che per più di un mese avevano seguito l'odissea; naufraghi, comunque vivi, forse profughi, ma per ora clandestini, forse addirittura terroristi aveva invece cominciato a dichiarare il ministro dell'interno italiano. E da lì l'idea che essere non migranti morti e vittime, ma naufraghi forse colpevoli, comunque vivi e ingombranti, migranti, dunque, di cui disfarsi senza tanti problemi di umanità ha iniziato a insinuarsi permettendo via via, naufragio dopo naufragio, non soccorso dopo non soccorso, caso diplomatico dopo caso diplomatico, processo per favoreggiamento dopo processo per favoreggiamento, respingimento dopo respingimento, la situazione attuale: il nuovo centro di detenzione dell'isola di Lampedusa vuoto, pochi i migranti in arrivo, cinque qua e là, sopravvissuti agli innumerevoli non soccorsi più o meno istituzionali in acque più o meno internazionali e comunque mai riconosciute come nazionali dagli stati che dovrebbero intervenire, e uomini, donne, bambini, neonati, nei numerosi campi di concentramento libici, ben finanziati dall'Italia per permettere i lavori forzati, i maltrattamenti, le violenze sessuali, gli aborti a colpi di manganello, spesso anche le uccisioni di cui si ha ormai documentata e quotidiana notizia.
Poco di cui rallegrarsi, ma un lieve sorriso di approvazione per una sentenza che nel nazivelinismo dell'Italia attuale ristabilisce una semplice verità: i naufraghi sono naufraghi, vite umane che in quanto tali vanno salvate. Un grazie alla Cap Anamur per averla ribadita, con tutta l'ostinazione necessaria quando le verità di fondo vanno perdute.

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