Nel Rapporto Met (settembre 2009) si legge: «Nazionalizzazioni e interventi nel capitale delle banche, manovre massicce sui mercati monetari, programmi fiscali più o meno ambiziosi, interventi sugli ammortizzatori sociali, consolidamento dei debiti a breve, operazioni di salvataggio o misure anticrisi per grandi gruppi e per settori specifici: ogni politica è sembrata possibile nell'agenda della crisi (almeno in linea di principio). C'è stato di tutto nel dibattito politico-giornalistico-economico; le sole assenti sono state le politiche per lo sviluppo e, in modo particolare, le politiche industriali».
Una riflessione amara, ma puntuale. La definizione di «politica industriale» è difficile, ma la doppia crisi dell'Italia, la prima legata ai pesanti riflessi della crisi finanziaria internazionale e la seconda, in prospettiva forse persino più preoccupante della prima, al graduale ma persistente deterioramento competitivo del nostro sistema produttivo rispetto a quello degli altri paesi di area Ocse, dovrebbe suggerire un'interpretazione ampia della politica industriale: misure e azioni capaci di rilanciare la produttività e antipare la domanda di beni e servizi che al momento l'attuale struttura produttiva non è in grado di realizzare. Questo orizzonte diventa stringente se pensiamo al gap di crescita dell'Italia rispetto all'Europa, che passa da un «modesto» 0,5% di pil dei primi anni novanta a un ben più grave punto di pil annuo in quest'ultimo periodo. Un quadro macroeconomico che ha eroso il potere d'acquisto dei redditi da lavoro e, insieme, l'occupazione. Mentre tutti i paesi europei si specializzavano in beni e servizi ad alto valore aggiunto, la manifattura italiana consolidava e alimentava i settori maturi, rinunciando per questa via alla sfida europea.
Oggi queste debolezze vengono al pettine. La bassa propensione alla ricerca e allo sviluppo di nuove tecnologie è coerente con il tessuto produttivo italiano. Non si può chiedere infatti alle imprese italiane, specializzate nei settori maturi e mediamente di piccole dimensioni, di fare ricerca e sviluppo di nuove tecnologie nella stessa misura dei sistemi produttivi centrati sulle grandi imprese. E in questo campo anche gli incentivi hanno un potere molto limitato, come conferma un recente studio di Bankitalia. Non a caso, invece, gli investimenti fissi italiani sono abbastanza alti: le nostre imprese preferiscono incorporare nuove tecnologie sviluppate in altri stati. Peccato che per questa via l'Italia perda lavoro buono, in grado di competere sui mercati internazionali. Le stesse politiche di sostegno alla domanda «innovativa», nel campo delle energie rinnovabili di seconda generazione, si traducono in perdita di posti di lavoro buono dal momento in cui non esistono imprese italiane capaci di soddisfare quella domanda. La stessa cosa era già successa nel settore delle nuove tecnologie informatiche e della comunicazione e a breve potrà valere per le macchine utensili: in questo campo la Cina da alcuni anni ha superato l'Italia a livello internazionale.
La politica industriale, in ragione delle caratteristiche del settore privato italiano, non può limitarsi al mero sostegno fiscale o finanziario dell'attività di ricerca e sviluppo delle imprese. Prima di tutto perché la leva fiscale non può condizionare l'attività produttiva, in seconda battuta perché il livello di elusione fiscale delle società per azioni rende poco efficace l'utilizzo di questa leva. Infatti il 40% delle società per azioni in Italia risulta avere costi più alti dei ricavi.
Se la crisi economica interessa soprattutto i settori maturi, nei quali si genera un evidente eccesso di capacità produttiva, una politica che miri al superamento della crisi deve puntare fra l'altro ad anticipare la domanda di beni e servizio legati ai settori innovativi.
In questo contesto, forse l'operatore pubblico può avere un ruolo ben più importante di quello al quale spesso viene confinato, cioè alzare o abbassare le tasse. Occorre invece tornare alla concezione, propria del socialismo liberale, di uno stato agente del mercato, che ne assicura e ne sostiene il buon funzionamento. Nella situazione italiana descritta sopra, una politica industriale basata su questa concezione implicherebbe una decisa politica pubblica attiva nel finanziamento della ricerca e dello sviluppo di nuove tecnologie, che potrebbe anche includere la creazione di società a capitale misto, eventualmente da cedere al settore privato in un secondo momento, per sviluppare la produzione di quei beni e servizi più avanzati che l'attuale struttura produttiva sembra non essere in grado di realizzare.
In altri termini, la politica industriale deve puntare con tutti gli strumenti a sua disposizione a favorire un rilancio della dinamica del nostro sistema produttivo, tramite una decisa azione pubblica nel campo degli investimenti in ricerca e sviluppo di nuove tecnologie. Altrimenti, il graduale declino dell'economia italiana è destinato a continuare; e nel contesto creato dalla crisi finanziaria internazionale questo significa pagare un prezzo elevato, in prospettiva tale da mettere a rischio la nostra partecipazione all'Europa dell'euro.