La «votazione cittadina» organizzata da una sessantina di organizzazioni, tra sindacati, associazioni e partiti di sinistra, è stata un grande successo: 2.137.717 persone hanno votato e più del 90% si è espresso contro la privatizzazione della posta francese. Questo referendum autogestito non ha valore legale in Francia (contrariamente alla Svizzera, da cui proviene il modello), ma l'insperata forte partecipazione e il risultato hanno un valore politico, che dovrebbe mettere in guardia il governo. Invece, ieri, dopo l'annuncio dei risultati, nella maggioranza e nel governo c'è stata una gara per denigrare l'esercizio: «voto truccato, un imbroglio», per il ministro del bilancio Eric Woerth, che ha parlato di «domanda falsa», «falsa democrazia» per l'ex primo ministro Jean-Pierre Raffarin, «una pagliacciata» per Frédéric Lefebvre, il portavoce dell'Ump, il partito di Sarkozy. Il ministro dell'industria, Christian Estrosi ha denunciato un voto «senza valore giuridico», che, a suo dire, ricorda «i grandi momenti dell'Unione sovietica». La sinistra chiede ora un vero referendum.
Per una settimana, dei volontari di un collettivo che raggruppa una sessantina di organizzazioni, tra cui i sindacati e i partiti di sinistra, hanno aperto delle urne sui mercati, di fronte alle poste o all'interno di alcuni municipi (dove i sindaci hanno concesso i locali). I cittadini erano invitati a rispondere con un sì o un no alla domanda: «Il governo vuole cambiare lo statuto della posta per privatizzarla. Siete d'accordo con questo progetto?». Il governo e la maggioranza contestano la veridicità del contenuto della domanda e assicurano che La Poste, servizio pubblico emblematico, non verrà privatizzata. Ma dal 2 novembre, il Senato comincerà a discutere il cambiamento de La Poste da società di diritto pubblico a società per azioni e l'Assemblea riprenderà la questione a partire da metà dicembre. Perché trasformare la posta in società per azioni se non c'è in vista la privatizzazione? Il governo risponde che La Poste ha bisogno di soldi per far fronte alla liberalizzazione totale che entrerà in vigore nella Ue il 1° gennaio 2011 (estesa anche alle lettere di meno di 50 grammi). E solo una società per azioni potrà ricevere il finanziamento della Casse des dépôts et consignation, banca pubblica.
Estrosi ha proposto di stabilire per legge lo «statuto pubblico» della posta. Gli oppositori ricordano che lo stesso discorso era stato fatto per Gaz de France e, prima, per France Telecom: le promesse di mantenimento nella sfera pubblica non sono state mantenute dopo la trasformazione in società per azioni. Entrambe le società sono state privatizzate, con le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti, in particolare France Telecom. Per Gaz de France esisteva una clausola specifica legale di mantenimento nella sfera pubblica, poi modificata per permettere la privatizzazione.
Con il referendum autogestito la sinistra ha ritrovato un po' di fiato e un'unità che non si vedeva da tempo. «E' un vero successo, c'è stata una mobilitazione senza precedenti - ha commentato il socialista Razzy Hammadi - è la prova che quando ci si dà da fare, quando si resta fedeli ai propri principi, è possibile spostare dei limiti che credevamo invalicabili». Per Hammadi, dopo il voto, «il governo è con le spalle al muro: o tratta con disprezzo la mobilitazione dei cittadini e dei territori oppure blocca il cambiamento dello statuto della posta e organizza un referendum nazionale». Secondo un sondaggio, il 59% dei francesi vorrebbe un referendum.
La Poste è un simbolo del «servizio pubblico»: i cittadini temono l'arrivo dei privati, interessanti solo al rendimento, prevedono chiusure progressive degli uffici postali, soprattutto nelle campagne e la fine del «servizio universale» che fa sì che La Poste sia anche «la banca dei poveri», cioè di coloro che sono respinti dalle banche commerciali. Il Ps ha l'intenzione di presentare al più presto una proposta di legge per stabilire la modalità di istituzione di un referendum popolare: manca il decreto di applicazione, ma la riforma costituzionale del 2008 permette ormai la convocazione di un referendum «su iniziativa di un quinto dei membri del parlamento, sostenuta da un decimo degli elettori iscritti».