PRIMA

Le nostre buone ragioni

INFORMAZIONE
ARESTA GIANCARLO,

Oggi si apre una pagina nuova nel conflitto in Italia sulla libertà d'informazione. Questo tema esce dall'ambito rilevante ma angusto del confronto tra élites culturali o dell'iniziativa di avanguardie giornalistiche e politiche e diviene terreno di mobilitazione sociale. Un fatto di grande rilievo, che ci auguriamo segni un passaggio di fase, da cui è impossibile arretrare. A sollecitare questa scossa c'è l'insofferenza di Berlusconi verso ogni forma legittima e doverosa di esercizio del diritto di critica. Se il governo afferma che la ripresa è già in atto, mentre il paese è in una montagna di guai, bisogna mettere a tacere la stampa "disfattista", anche negandole la pubblicità. Se una girandola di scandali coinvolge il premier, bisogna imbavagliare la stampa, proibendo la diffusione delle intercettazioni e rendendo monca e opaca l'informazione sulle notizie di reato. Non basta più poi mettere le mani sulla Rai, designando fedelissimi al governo aziendale e ai principali Tg. Si aprono le liste di proscrizione nei confronti di quei pochi programmi, in cui ancora si esercita un'azione critica, che non è mancata nemmeno al precedente governo. È Berlusconi che sta arroventando il terreno di confronto sulla libertà di informazione, rendendo visibile così la vocazione profondamente autoritaria del suo modello populistico e plebiscitario di governo del paese. Per questo non si può più fare un passo indietro, rispetto alla scelta di mettere nelle mani dei cittadini l'impegno di difendere il diritto costituzionale all'informazione.
Ma per la stessa ragione occorre aver ben presente che ciò che l'articolo 21 tutela è il diritto dei cittadini ad essere informati, che coinvolge questioni assai più ampie di quelle che hanno tenuto banco in queste settimane ed implicano scelte rigorose e difficili anche da parte di coloro che ne sono stati protagonisti, come, ad esempio «Repubblica». La libertà non si può tagliare a fette, scegliendo di tutelarne una parte sola. Un nodo restato troppo sullo sfondo in questi giorni è quello del pluralismo, profondamente minacciato in Italia, ormai da un decennio, dal crescere dei processi di concentrazione e dagli squilibri sempre maggiori nella distribuzione di risorse nel sistema. Si è ignorato, infatti, che sull'informazione a stampa sta per cadere la mannaia della legge Gasparri, che rende possibile, dal primo gennaio 2011, anche a chi è proprietario di due o più Tv, acquistare giornali. Immaginiamo un po' cosa succederebbe se un monopolista come Mediaset (che nel 2008 - fonte Agcom - ha fatturato 2.165 milioni di euro di pubblicità, rispetto ai 1.269 di tutti i quotidiani italiani messi insieme) comprasse un grande giornale. Ne verrebbe fuori un conglomerato della comunicazione, capace di sottrarre risorse ai suoi principali concorrenti, accelerando una inammissibile débacle del pluralismo. In questi anni troppe testate giornalistiche a stampa sono scomparse nella disattenzione e nel silenzio, troppe hanno cambiato proprietà, andando ad allargare l'influenza dei grandi gruppi; sopprimendo voci essenziali per far vivere la democrazia dell'informazione in Italia. Se i 5 maggiori editori concentrano nel 2008 l'85% del mercato dell'editoria quotidiana, un problema grande come una casa c'è già, in un paese che ha conosciuto un profondo dualismo tra la tradizione monopolistica dell'editoria televisiva e la richezza di un'informazione a stampa, capace in passato di dare voce pubblica e cittadinanza a una grande molteplicità orientamenti culturali e politici, e a tante realtà territoriali. Sono spariti dalla scena gli editori puri, e l'insieme della informazione italiana è nelle mani di holding, che hanno i loro interessi prioritari in altre attività industriali e finanziarie, che acquistano una forte capacità di orientamento dell'opinione pubblica, minacciando così un aspetto non secondario della libertà di stampa. Noi del manifesto pensiamo che una nuova, rigorosa, coraggiosa legge antitrust sia un fronte essenziale dell'impegno per la libertà d'informazione. Abbiamo combattuto per un anno - accompagnati da un silenzio stampa assordante - una battaglia pubblica per difendere i contributi all'editoria cooperativa e di partito da una legge del governo Berlusconi, che minacciava di cancellare trenta giornali cooperativi e diversi giornali politici. Il nostro impegno ci ha guadagnato una tregua. Ma il pluralismo in Italia è in una sofferenza profonda; e i grandi giornali devono capire che non si può più fare la politica dello struzzo: lasciare indisturbati i manovratori (Berlusconi e Mediaset), cercando di guadagnare terreno facendo terra bruciata attorno a sé nella carta stampata. Nella crisi, infatti, c'è il rischio che chi ha una posizione dominante si rafforzi ulteriormente. «I dati di mercato confermano che, come in passato, nelle fasi di debolezza congiunturale gli investitori normalmente tendono a privilegiare i mezzi più forti ... ed in tale contesto le consolidate leaderhip rappresentano... la garanzia per il Gruppo di poter contenere in questa fase gli impatti negativi», scrivono nella Relazione intermedia sull'andamento della gestione del 30 giugno 2009 Fedele Confalonieri e Pier Silvio Berlusconi, presidente e vice-presidente di Mediaset. Anche questo spiega gli attacchi alla stampa da parte del premier. Ci sono, infatti, cattive notizie negli ultimi tempi nell'impero economico di Berlusconi. L'utile netto di Mediaset è sceso nel primo semestre 2009 a 180,8 milioni a fronte dei 350 del 2008 (e il fatturato è passato da 2.247,3 milioni a 1.951,7). Mentre Mondadori crolla da 36,7 milioni a 7,3 (non bastano nemmeno a pagare l'ingaggio di Pirlo). Quella crisi che viene negata nel paese, galoppa nelle sue imprese. Bisogna temere sempre la belva ferita. Cogliere tutte le motivazioni del suo spirito di rappresaglia

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