SPECIALE

La lunga marcia della cultura

CINA, SESSANTA E NON SOLO
MASI EDOARDA,

L'attenzione alla Cina è tradizionalmente rivolta ai fatti economici. In Cina insistono a non trascurare il fatto culturale. Mi è arrivato un libro d'una giovane scrittrice cinese su Confucio, un best seller di 10 milioni di copie in tutto il mondo. Riecco Confucio e il confucianesimo che rischiano d'apparire in una forma pseudomoderna. Indipendentemente dall'importanza di Confucio, nella Cina moderna, dal XX secolo in poi, ogni volta che l'orientamento politico gira a destra si tira fuori Confucio come simbolo del conservatorismo.
Ho riletto un saggio di Lu Xun, Lo studio dei classici del XIV anno, sul periodo del dominio dei Koumintang negli anni Venti quando venne riproposto lo studio del confucianesimo, un po' ai margini dalla rivoluzione culturale promossa nel 1919 dal Movimento del 4 maggio. Fuori dall'uso distorto di Confucio, tutto questo vuol dire che i cinesi si confermano tra i pochi sensibili alla cultura e che ancora pensano alle centralità della cultura e e della cultura politica.
La Cina esprime questa ferita non sanata. Quella del peso della cultura che, giustamente nell'epoca moderna, da Marx, ha visto sempre «primeggiare» l'economia. Essa è essenziale, ma affrontare la base economica dei problemi della società non è sufficiente a cancellare il peso del potere culturale. Era molto chiaro a Mao Tze Tung e a una parte dei cinesi, quelli che hanno promosso la Rivoluzione culturale anche grazie a una forma specifica che il potere ha preso nella storia della Cina, che è stato sempre - anche nella Repubblica popolare socialista - un potere culturale. Il vero potere centrale era un potere culturale, determinato fin dall'età dell'epoca Han da alleanze fra l'imperatore e la classe colta.
Diversamente dall'Europa, dove il potere della chiesa cattolica è in parte diventato erede dell'impero romano e quindi ha unito l'eredità del cristianesimo, l'eredità religiosa con l'eredità politica. Fino alla fine del Medioevo il potere culturale si mascherava in modo equivoco da potere religioso. I «chierici» erano i religiosi ma erano anche i colti. Una sovrapposizione evidente nel Medioevo. Sovrapposizione che in Cina non c'era, la classe colta era laica, era quella al potere.
Nel Manifesto del partito comunista leggiamo una specie di inno al capitale perché ha mostrato la realtà che veniva nascosta dietro i «variopinti legami» che invece si intrecciavano prima nel mondo pre-capitalista. Ma quei variopinti legami non sono una falsità, non sono semplicemente ideologia rispetto al potere economico. Che resta centrale, ma i rapporti di produzione mostrano la divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, tra chi esegue e chi pensa, tra chi guida l'agire degli altri e il tempo di lavoro dei nuovi schiavi gli immigrati. C'è ormai una specie di schizofrenia nella società che utilizza ancora oggi una parte della popolazione che pensa e una parte della popolazione che esegue. E' vero che apparentemente questo è negato, le democrazie danno l'illusione che tutti siano uguali. Ma quando nell'esperienza diretta «fai l'inchiesta», quella che Mao Tze Tung diceva obbligatoria se si vuole avere il diritto di parola, l'inchiesta anche sulla tua stessa vita, scopri che questa uguaglianza è fittizia, che trova la sua vera negazione non solo e non tanto sulla differenza economica, ma su una differenza più profonda. Tra chi è capace di pensare razionalmente, di giudicare con un potere culturale che può leggere in tante lingue, e chi semplicemente cerca di eseguire. Riecco Confucio che funziona bene - da buon conservatore ma rivoluzionario: «Il popolo va dove il vento lo piega».
Nella Cina attuale il conflitto tra economia e cultura resta aperto. Non funziona e non basta più, se mai è bastata, la parola d'ordine denghista «Arricchirsi è glorioso» - il nuovo romanzo di Yu Hua Xiong Ti (Fratelli), racconta proprio di questo. Rappresenta l'epopea del venditore di stracci che diventa stramiliardario, «venditore di stracci» senza conoscenza e cultura.
In Cina è stata proprio l'epoca paradossale dell'arricchirsi puro, fuori e contro gli altri. Mentre da noi, in un primo periodo, i grandi borghesi erano anche persone colte. Non più oggi, come dimostra Berlusconi. Invece adesso in Cina è così, c'è l'arricchimento puro senza pensiero. Che resta solo ai burocrati.
Quel che appare evidente in Cina è una diffusa alienazione da diseguaglianza. La diseguaglianza è totale. Ma resta wen, la cultura, che è cultura politica. Oggettivamente gli unici grandi politici nel mondo sono i cinesi. Fanno la politica. C'è anche Obama che tenta di farla, ma è troppo condizionato da quello che c'è a casa sua. Mentre in Cina si fa la grande politica, proprio quello che distingue, ritornando ancora a Confucio, perché «funziona bene». Così dopo 60 anni è ancora centrale la battaglia sulla cultura. Con le sue domande inevase. Quale modello produttivo e di società, ora che si apre una crisi del sistema occidentale, insieme alle vistose diseguaglianze interne? Perché non ha funzionato in Cina la rivoluzione culturale - che non era miserabilismo? Perché l'idea assolutamente anarchica di Mao Tze Tung di dare al popolo la scelta dei contenuti della libertà, non ha visto il popolo capace d'assume il proprio destino? Perché qui da noi c'è la pseudodemocrazia, a partire dagli Stati uniti dove tutti sembrano uguali e non sono uguali per niente?
È un messaggio che viene da lontano. Mao sapeva che la grande vittoria della rivoluzione contadina, che doveva essere la liberazione dei contadini, aveva portato la Cina alle soglie del capitalismo, alle soglie di un grande sviluppo economico che però non dava per niente a questo popolo che aveva fatto la rivoluzione la possibilità di autogovernarsi. E quindi non era sufficiente dire: i produttori gestiscano il capitale. Non è vero, non possono gestirlo, non hanno la cultura. Non basta fare la rivoluzione economica. Questo valeva in questi lunghi sessanta anni per la Cina e vale soprattutto per noi.

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