Il voto tedesco di domenica non è arrivato a sorpresa: ha infatti riconfermato, accentuandole, le tendenze già emerse nelle elezioni regionali di qualche settimana fa: crollo della Spd (il risultato peggiore da 60 anni a questa parte); lieve declino della Cdu; successo senza precedenti dei liberali da un lato e della sinistra rossa e verde dall'altro; astensione crescente (anche questo un record storico). Ma a livello federale le conseguenze sono assai più rilevanti, come è evidente.
Con la fine della «grande coalizione» - formula di emergenza cui ora non sarà più necessario ricorrere - un mutamento ci sarà. Innanzitutto non è affatto vero che si apre una fase tranquilla, come molti si sono affrettati a dire, né in piena continuità con quella precedente: i margini per un ulteriore smantellamento dello stato sociale sono in Germania ancora ampi (era l'ultimo bastione in Europa) e i liberali vorranno senza dubbio utilizzarli. Ma non si tratterà di un'operazione indolore: la stessa Merkel, in contrasto con il proprio partito, non è una liberista e le tensioni nel governo con il suo nuovo partner, Westerwelle, non mancheranno. Alimentate peraltro dalla crescita nel paese di una protesta sociale - per la perdita di due milioni di posti di lavoro e il ristagno salariale - che potrà ora contare, a livello istituzionale, sull'appoggio di una Linke uscita ancor più forte dal voto (con un più 3,5%, e sfondamento del tetto nelle elezioni regionali persino nella conservatrice Baviera!); di una presenza verde che per la prima volta supera il 10%; di una Spd che, per quanto disastrata, sarà fatalmente spinta, ora che è all'opposizione, ad assumere un profilo un po' combattivo. La tanto paventata instabilità potrà pure esser stata sventata a livello politico, non certo a quello sociale.
C'è da chiedersi come sia possibile che di fronte ad una crisi economica largamente prodotta dall'irresponsabile comportamento dell'alta finanza, gli elettori abbiano scelto di privilegiare proprio coloro, i liberali, che sono i paladini del mercato sregolato e bloccano ogni intervento pubblico inteso a ridurre l'arbitrio di una manciata di grandi banchieri. Proprio in questo paradosso sta il sintomo più serio del crollo socialdemocratico. Che in Germania è clamoroso, ma non isolato: a guardare i sondaggi, e l'andamento dell'annuale conferenza del Labour in corso a Brighton, in Inghilterra, non sembra star meglio, per non parlare della Francia e, per carità di patria, dell'Italia. La Spd regge nelle sue roccaforti tradizionali, ma anche qui appare ormai logorata. La spinta propulsiva di Blair, che aveva animato una breve stagione d'euforia, si è ormai consumata ovunque.
Che questo accada nel momento in cui il capitalismo, che fino a ieri sembrava eterno e trionfante, mostra così vistose crepe, indica che forse non siamo più di fronte a singole sconfitte politiche, ma ad una sterilità culturale ormai drammatica.
Di fronte al mutismo della socialdemocrazia, c'è da chiedersi se non si sia giunti ad un passaggio storico, indotto dagli opportunismi e dalle incertezze. Ma anche da una drammatica assenza non solo di proposte immediate, ma di visioni di lungo periodo, di identità. (E non è una notizia che ci rallegra, anche se è sintomatica, quella dello Spiegel: da un sondaggio risulta che il 57% dei tedeschi della ex Rdt la rimpiangono: non era questo, francamente, il modello alternativo che avremmo preferito!).
Potremmo consolarci con i successi che, salvo che in Italia, conoscono le sinistre dette «radicali». In Germania, con la Linke, che si è ormai affermata a livello federale come una forza con cui non si può non fare i conti, ma anche, e proprio nello stesso giorno, in Portogallo, con il Bloque, che raddoppia i suoi voti, un successo che ci è particolarmente caro perché si tratta di un gruppo nato da una nostra costola, non a caso da una rivista che vollero chiamare O Manifesto.
Ce ne rallegriamo molto, e festeggiamo con loro. Ma si tratta di affermazioni purtroppo ancora isolate in Europa (certo più numerose di quanto in genere si ritiene, basti conteggiare gli analoghi successi in Olanda o in Norvegia), ancora insufficienti a delineare una reale , complessiva alternativa.
Sufficienti, tuttavia, a tener aperto il problema che travaglia quasi ovunque socialdemocratici e simili: allearsi con queste sinistre e così prospettare la sola eventuale prospettiva di tornare al governo, oppure perseverare nella orgogliosa, ma ormai un po' ridicola, autosufficienza? In Germania sono in molti ad essere convinti che il crollo della Spd è dipeso per molti versi proprio dal non aver voluto prospettare una alternativa di governo per il rifiuto opposto dalla leadership del partito all'ipotesi di una coalizione con Die Linke. Il grosso delle tante astensioni, dicono i sondaggi, vengono proprio dagli elettori socialdemocratici.
Proprio domenica votava anche il Land del Brandemburgo dove è avanzata (al 33% ) la Spd e Die Linke (al 27,2 %). Gli elettori, festanti, hanno celebrato l'esperienza del governo rosso-rosso di Platzek, e l'hanno riconfermato. Se ne trarrà qualche lezione alla Willy Brand Haus dove ieri tutti piangevano? Oscar Lafontaine ha addolcito i toni nei confronti del suo vecchio partito e ha detto che la sua sconfitta non lo rallegra: forte del suo quasi 13% dei voti ha ormai i rapporti di forza per ipotizzare una coalizione in cui contare. Ma la partita nella SPD è aperta e non è detto come si concluderà il prossimo congresso previsto per novembre.
Analoga situazione in Portogallo, dove il partito Socialista ha conservato la maggioranza relativa, ma ha perduto quella assoluta, e se vuole governare dovrebbe mettersi d'accordo con il Bloque e con il Pcp, che resta incredibilmente rilevante. Ma qui i tempi sono ancora meno maturi.
E in Italia? Nessun problema: Berlusconi ha fatto sapere che governerà per sempre. E intanto è stata annunciata una nuova scissione a sinistra: i verdi si dividono in due.