Un film come Le Ombre rosse, che si propone di raccontare cosa è diventata la sinistra, cioè anche tutti noi, sollecita commenti ulteriori, anche se con quanto ha già scritto in proposito Roberto Silvestri concordo.
Del resto la corposa presenza di sinistra (sia pure cinefila), venuta a vedere il film di Citto Maselli qui a Venezia, ha dimostrato che, al di là dell'interesse per l'opera cinematografica, c'è un grande bisogno di riflettere su sé stessi e sul disastro cui siamo arrivati, nessuno davvero innocente. E ben venga, dunque, l'occasione di questa pellicola impietosa ma mai astiosa - è un merito di Citto - sempre pronta a sottolineare, anche nei peggiori, il barlume di qualche ragione. Al centro della storia, insomma, non ci sono i buoni e i cattivi, ma l'ambiguità complessa della situazione. (Che strano: Citto Maselli nella vita sempre un po' settario, quando è regista si trasforma).
Il suo film, infatti, non giudica, coglie le sfumature, è uno squarcio problematico sullo scorcio storico dell'ultima sconfitta subita per mano di Berlusconi, che si abbatte su tutti - inaspettata perché tutti sono ciechi. In questo senso assai più stimolante di una denuncia.
La sinistra presente in sala l'ha capito e, salvo il fischio di qualche arrabbiato privo di dubbi sulla propria verità, è uscita dalla proiezione addirittura commossa. E subito infatti ha lasciato perdere il giochetto, che pure attira, di identificare chi c'è di realmente esistente dietro i volti del virtuale architetto Varga (certamente Massimiliano Fuksas); del prof. Siniscalchi (probabilmente Umberto Eco, ma c'è chi suggerisce Asor Rosa), del capo di gabinetto del sindaco (di sicuro Walter Verini). Nel film ci siamo tutti, in un modo o nell'altro.
C'è soprattutto il Centro sociale «cambiare il mondo» - una delle tante, preziose, realtà cresciute in questi ultimi decenni - i cui personaggi sono infatti scolpiti con più verità; e amore. Solo vittime di un sistema che vuole cooptarli e normalizzarli, magari persino con buone intenzioni,così come ha fatto con altri settori della sinistra? Sì e no. Neanche loro sono innocenti: sono buoni, pronti al sacrificio personale per misericordia, ricchi di carità e compassione umana prima e al di là della politica. E infatti, anche per questo, sono isolati, il Centro sociale sembra uno struggente fortino nel deserto, il famoso rapporto col «territorio» tanto invocato da Rifondazione comunista ma anche dal Pd, ridotto a quello con chi il territorio non ce l'ha, i rom, gli immigrati, gli emarginati di ogni specie. Non c'è intorno un quartiere, un contesto sociale, niente. Ed è proprio questa solitudine l'aspetto più dolente del film. Gli intellettuali che li visitano sono invece tutti «dentro» la società reale, ricchi di legami, inseriti. Quale dei due mondi è più reale? Stiamo ancora confrontandoci col dilemma riforme o rivoluzione che per più di un secolo ha travagliato la sinistra, peraltro ormai sconfitta in ambedue le opzioni?
A me, che sono un po' vetero comunista, colpisce, non solo nel film ma anche nella realtà, l'esistenza oramai di due soli poli: da un lato gli idealisti che rifiutano ogni compromesso, dall'altro gli opportunisti. Possibile che ciò che è scomparso dal reale - e dunque anche dall'introspezione che ne fa questo film (così come altre espressioni artistiche ma anche storico-sociologiche) - la memoria di quel che per decenni è stato il comunismo che pure, in Italia in particolare, era riuscito a coniugare alterità con realismo, strategia radicale con razionale (e leninista) costruzione di alleanze, indicazione di obiettivi intermedi, di un itinerario possibile, insomma? La memoria (anche critica, per carità) si è persa. Mai come oggi c'è stata una rottura generazionale così profonda, un rifiuto così netto da parte dei giovani dell'esperienza del passato, il '900 considerato solo un cumulo di macerie e di orrori.
Si capisce: questo passato è stato o conservato in forme sclerotiche, o frettolosamente abiurato. Nel film un tentativo diverso viene fatto dal vecchio sindacalista, che però è troppo vecchio e alla fine si ingarbuglia. Nessuno,né in Ombre rosse né nella realtà, sembra più disposto alla fatica che è stata dei comunisti, lasciando così sul campo solo idealisti sconfitti o navigatori pseudorealisti, altrettanto sconfitti. Anche nei partiti, o pezzi di partiti, esistenti la dialettica sembra ormai ridotta a uno scontro fra questi due poli. Il film di Citto è dedicato all'amico e compagno (anche di scuola, suo e anche mio) Sandro Curzi. È stato lui, infatti, che, poco prima di morire, dopo averne visto la prima copia ancora in lavorazione, ha consigliato di non finire con l'immagine della sconfitta elettorale che lascia attoniti i protagonisti, oramai solo «ombre rosse». E di aggiungere una sequenza «positiva». Qualche ragazzo che si accosta ad un nuovo edificio abbandonato per metter mano alla costruzione di una nuova sede per il Centro Sociale, dopo che la vecchia si è dovuta abbandonare. Sandro era un inguaribile ottimista. Non è un brutto difetto.