Tremila euro per aggiudicarsi un alloggio popolare a Milano. Denaro da versare in nero e in contanti alla signora Giovanna Pesco detta la Gabetti. Storia ormai nota, quella del racket degli appartamenti in via Padre Luigi Monti in zona Niguarda. Il caso, sollevato dall'Associazione Sos-racket e usura, ha però dato la stura a una situazione di illegalità che giorno dopo giorno coinvolge interi quartieri della città: dal Lorenteggio allo Stadera, da via Palmanova fino a Cinisello Balsamo. Da qualche giorno la Procura ha aperto un fascicolo. Indaga la squadra Mobile con l'idea di unificare i vari casi in una sola inchiesta.
Ma se le responsabilità penali dovranno essere accertate, pochi dubbi si hanno per quelle politiche. Con il Comune e la sua giunta trascinati sul banco degli imputati dalle decine di denunce, querele, esposti inviati nel tempo dai cittadini di via Luigi Monti, quartiere in cui il sedimento criminale è vecchio di almeno 13 anni. Tanti ne sono passati dal primo inascoltato esposto datato 16 dicembre 1996 e firmato da alcuni residenti di quelle case popolari: «Chiediamo l'immediato allontanamento della famiglia Pesco-Cardinale abitante in via Padre Luigi Monti».
Questo l'incipit del documento. Dieci drammatiche pagine con il timbro del Comune, numero di protocollo e settore competente (edilizia privata). Risultato: un silenzio pneumatico. L'allora primo cittadino leghista Marco Formentini non pensò di avvertire la magistratura, imitato nel tempo dai suoi successori Gabriele Albertini e Letizia Moratti. Eccoli, con nomi e cognomi, i responsabili di una situazione che solo nel 2009 è deflagrata a livello nazionale. Tre sindaci, tutti schierati con quel centrodestra che da quasi vent'anni governa Milano.
Eppure sarebbe bastato poco per capire. Perché le pagine di quell'esposto, acquisito solo ieri dal capo della squadra Mobile Alessandro Giuliano, già raccontavano tutto. Era 13 anni fa, ma sembra oggi. «La famiglia Pesco-Cardinale nell'estate del 1980 occupò l'appartamento in via Luigi Monti». Il metodo è lo stesso descritto da Giovanna Pesco solo pochi giorni fa. «Prima - si legge - ci abitava una signora anziana che si trovava in una clinica per delle cure».
Occupazioni abusive, ma anche droga, morti e suicidi. Di nuovo il documento: «Iniziarono a vendere droga nel loro stesso appartamento con gli eroinomani che salivano da loro, a volte sbagliando interno con grande paura da parte nostra».
Anche la polizia sapeva: «L'avvertimmo, ma nulla cambiò e anzi la situazione peggiorò». Con un primo drammatico risultato: «Nel 1988 la madre di un tossicodipendente si suicidò per protesta, buttandosi dal balcone in piena notte». C'è di più e se possibile di peggio. Ecco cosa si legge a pagina quattro dell'esposto: «Nel 1995 un ex tossicodipendente, già loro cliente, morì di overdose pochi giorni prima di andare alla polizia a denunciare il clan». Appresa la notizia, i Pesco-Cardinale «festeggiarono con musica ad alto volume, mentre a poche decine di metri si stava svolgendo il corteo funebre di questo ragazzo».
Invincibili, perché padroni del territorio, perché quella via è «cosa nostra». Ecco come hanno vissuto fino a oggi le donne e gli uomini del clan. Le cantine, ad esempio, «le usano per smontare i pezzi di moto e auto rubate». La storia, dunque, era già scritta. Ma nessuno si è mosso, né la politica, né le forze dell'ordine. Mai sfiorati dal sospetto su quella famiglia, i Pesco, che «manifestava un alto tenore di vita, senza aver mai dichiarato alcun reddito». Sono passati tredici anni e ancora nulla è stato fatto per porre fine a «questa tragedia» che terrorizza e zittisce come conferma il documento: «Non abbiamo voluto estendere questa denuncia a causa della manifesta paura della gente che abita qui». Nel 1996 l'esposto si concludeva con la richiesta «di un atto di giustizia». Al sindaco Letizia Moratti l'onere di una risposta.