INTERNAZIONALE

Un coro contro il golpe

LATIN0AMERICA
BERETTA GIANNI,

«Tornerò presto al mio posto» assicura da Managua il presidente dell'Honduras, rimosso (e caricato a forza su una ereo per il Costa Rica) all'alba di domenica da un incruento golpe politico-militare. Manuel Zelaya parla avendo al fianco il presidente nicaraguense Daniel Ortega, il venezuelano Hugo Chavez e l'ecuadoriano Rafael Correa, precipitatisi in Nicaragua la sera stessa (sarebbero in arrivo anche il boliviano Evo Morales e delegati da Cuba e Repubblica Dominicana) per una riunione di emergenza dei paesi dell'Alba (Alternativa bolivariana per le Americhe) cui Zelaya aderì lo scorso anno nella sorpresa generale. Caso vuole che in Nicaragua siano presenti da ieri anche tutti i capi di stato dell'istmo centramericano più il messicano Felipe Calderon per la riunione del Sistema di integrazione economica regionale. Nessuno ha proposto di invitare da Tegucigalpa l'ormai presidente di fatto Roberto Micheletti, ex capo del parlamento. Tutti hanno biasimato senza riserve la defenestrazione di Zelaya, che ha preso regolarmente il suo posto nella sessione.
Con procedura d'urgenza lunedì si è riunita anche L'Assemblea generale dell'Onu che ha condannato fermamente il colpo di stato dopo che il segretario generale Ban Ki-Moon aveva intimato che Zelaya venisse reinsediato. Ieri il presidente dell'Assemblea generale Miguel D'Escoto, ha invitato Zelaya a intervenire al Palazzo di vetro. Oggi sarà la volta dell'assemblea generale dell'Organizzazione degli stati americani (Osa) a Washington, il cui segretario, il cileno Miguel Insulza (all'unisono col resto dei governanti latinoamericani) si era espresso fin dal primo momento con durezza contro i golpisti. E dire che solo il 2 giugno scorso l'Osa si era riunita proprio a Tegucigalpa (presente Hillary Clinton) sdoganando l'eventuale rientro di Cuba nell'organizzazione continentale.
La presa di distanza più attesa, visti i trascorsi dell'Honduras, considerato ancora oggi la banana republics per eccellenza nel cortile di casa Usa, era quella di Barack Obama, giunta anch'essa prontamente, in difesa «delle regole democratiche e dello stato di diritto». Il segretario di stato Hillary Clinton, nel suo primo incontro con la stampa dopo la rottura del gomito, ha dichiarato che la «priorità» Usa «è di restaurare totalmente l'ordine democratico». Una presa di posizione che rappresenta un' assoluta novità in America latina dove i golpe, storicamente, erano orditi proprio nelle ambasciate Usa. Anche se, nel caso specifico, pare impossibile che i diplomatici statunitensi nella capitale honduregna non ne fossero perlomeno a conoscenza; tanto più che a Palmerola permane quella base aerea militare strategica della U.S. Force che fu fatta installare dall'allora ambasciatore John Negroponte agli inizi della guerra dei contras (antisandinisti) che operavano dall'Honduras.
Ma come si spiega di nuovo un golpe in America latina, in tempi di Obama, in una piccola nazione dimenticata, nei confronti di un presidente che a gennaio del prossimo anno avrebbe concluso il suo mandato? Zelaya è un imprenditore agricolo e allevatore, ca tapultato alla massima carica del paese dal Partito liberale che nelle elezioni del 2005 scalzò il rivale storico, il Partito nazionale, un po' più conservatore, entrambi tuttavia parte di un'avida e corrotta oligarchia e di un rigido sistema bipartitico. Non è mai stato chiaro perché Zelaya abbia, fin dal 2006, cominciato a negoziare petrolio con la Pdvsa di Chavez (anche a costo del ritiro temporaneo dell'ambasciatore Usa e della furia del suo partito) finendo poi per entrare in Petrocaribe, gruppo di paesi dell'area che ricevono oro nero da Caracas. Certo, l'Honduras otteneva in questo modo consistenti sconti e dilazioni nei pagamenti. E non è chiaro a tutt'oggi se Zelaya, cappellaccio da cow-boy in testa, prima di aderire alla radicale Alba si sia davvero legato a quel poco di movimento popolare organizzato che esiste in Honduras e fa riferimento alla sinistra di Unificazione democratica, i cui cinque deputati sono gli unici, su 128, a essersi assentati dal voto golpista di domenica.
Gli avversari lo accusano di essersi anche lui ammalato di «rielezionite», con la sua proposta di consultazione popolare (che avrebbe dovuto tenersi proprio domenica scorsa) sull'ipotesi di aggiungere alle elezioni generali del novembre prossimo (presidenziali, parlamentari e municipali) una quarta urna per un referendum su un Assemblea costituente. Se la consultazione avesse avuto esito positivo, assicurano i suoi nemici, lui avrebbe sciolto il parlamento già questa settimana. E alla Costituente avrebbe promosso un articolo sulla (sua) rieleggibilità.
La Corte suprema e il Tribunale elettorale hanno bloccato Zelaya perché non competerebbero al presidente iniziative del genere (tanto più nel semestre bianco che precede le elezioni). Lui ha dato ordine alla forza aerea honduregna di distribuire ugualmente in tutto il paese le urne che aveva in custodia (arrivate dal Salvador). I militari si sono rifiutati. Zelaya ha destituito il capo di stato maggiore dell'esercito. A ruota tutti i vertici dell'esercito si sono dimessi. E all'alba di domenica sono andati a prelevarlo nel palazzo presidenziale per imbarcarlo su un aereo per San José di Costa Rica. Intanto il parlamento votava la sua defenestrazione. Micheletti, il suo successore di fatto, di origine bergamasca, ha imposto subito lo stato d'assedio notturno. Manuel Zelaya è politicamente solo. Le manifestazioni in suo favore sono assai timide. Ma al di là dello stato d'allerta dichiarato da Hugo Chavez, ha dalla sua tutta la comunità internazionale. Gli basterà?

Supporta il manifesto e l'informazione indipendente

Il manifesto, nato come rivista nel 1969, è sinonimo di testata libera, indipendente e tagliente.
Logo archivio storico del manifesto
L'archivio storico del manifesto è un progetto del manifesto pubblicato gratis su Internet e aperto a tutti.
Vai al manifesto.it