Con la morte di Ralph Dahrendorf, uno dei più grandi sociologi europei, il Novecento, con le sue categorie e le sue forme di interpretazione della cultura e della politica, si allontana un pò di più da noi. Dahrendorf, infatti, è appartenuto a quella vasta schiera di intellettuali che interpretavano il proprio ruolo come «pubblico», volto cioè all'assunzione di un impegno diretto nella sfera politica, sulla base dell'appartenenza ad una «Repubblica» (universale) dei sapienti, dei migliori, dei più colti: professore di sociologia ad Amburgo, Tübinga, Costanza e, da ultimo, a Berlino. Membro del parlamento tedesco per il Freie Demokratische Partei (i liberali tedeschi), dirigente del ministero degli Esteri, membro della Commissione europea, Direttore della London School of Economics.
Era l'epoca dei grandi intermediari sociali e culturali il Novecento, secolo del trionfo delle ideologie, secondo la nota definizione di Karl Bracher, storico liberale tedesco vicino a Daharendorf, in cui l'analisi sociale, le battaglie intellettuali, avevano una ricaduta diretta sulle forme di organizzazione del consenso e della politica in generale. In quel secolo, fatto di manicheismi, Daharendorf, come Raymond Aron, scelse di stare nettamente da una parte, quella dei liberali, diffidenti del pensiero rivoluzionario e dello storicismo, difensore del valore assoluto della democrazia pluralista e del mercato. Non vide mai né mai riconobbe, come tutti i pensatori liberali del Novecento, che la sua scelta, il suo impegno politico e pubblico, erano quanto di più lontano possibile da un atteggiamento laico, ispirato dalla pura razionalità e dal rifiuto delle ideologie: Dahrendorf fu un credente e un combattente appassionato, come quegli intellettuali, primo tra tutti Sartre, che egli giudicava partigiani, conformismi e dogmatici.
A suo merito non va riconosciuto solo il fatto che non cedette mai alla tentazione di sostenere, sotto la forma della dittatura del proletariato oppure dello Stato etico, l'idea di una «Repubblica dei filosofi», e quindi della Verità assoluta che si incarna nella politica. Piuttosto, più importante è il posto centrale che il conflitto sociale occupa nella sua opera, tutta tesa a valorizzare il ruolo del mutamento e a rifiutare, cosa che pochissimi liberali suoi contemporanei facevano, ogni genere di conservatorismo. Dahrendorf fu tra i primi, negli anni Cinquanta, a scagliarsi con forza e con grande successo contro quell'ortodossia sociologica parsoniana che assegnava alla questione dell'integrazione sociale un ruolo centrale nel pensiero sociale. Lo fece recuperando e criticando in modo innovativo Karl Marx, di cui ebbe, come Raymond Aron, immensa stima intellettuale.
All'idea di una società ordinata, funzionale e al di sopra dei soggetti che la abitano, il sociologo tedesco, infatti, oppose un'acuta analisi del ruolo del conflitto di classe, contrasto istituzionalizzabile ma mai annullabile, quale elemento centrale della dinamica sociale. La società è fatta di rapporti di forza che nascono da contrasti e dagli esiti di questi contrasti, in primo luogo nelle organizzazioni (burocrazie ed imprese) intorno ai ruoli di autorità; nel sistema sociale più vasto attraverso una continua lotta tra gruppi dirigenti tra loro diversi. Da Dahrendorf in poi, per il tramite della critica conflittualista, le scienze sociali avrebbero per sempre perso la pretesa di giungere ad un'unità teorica poiché, in un mondo tutto politico costruito e tenuto in piedi da una pluralità di soggetti sociali concreti, la diversità (degli individui, dei gruppi, delle fazioni, dei discorsi politici e dei paradigmi teorici) è in fondo l'unico termine unificante, come la democrazia, anche in sede di costruzione dell'Unione europea, è l'unica forma politica possibile: qui il conflitto è riconosciuto e solo qui esso può spiegare tutte le sue possibilità innovative.
L'età dei grandi intellettuali pubblici è ormai lontana, affossata dalla democratizzazione delle forme di produzione del sapere, per esempio attraverso la rete, dall'esplosione della classe creativa e dagli opinionisti sacerdoti della banalità televisiva. Parafrasando Croce, in questo noi siamo ormai morti rispetto all'opera di Dahrendorf e di altri intellettuali suoi contemporanei. Nella sua enfasi sul valore innovativo del conflitto istituzionalizzato e, in fondo, del pluralismo, ci giochiamo invece il nostro futuro di cittadini e, più ancora, di soggetti.