Alexandre Koyré scriveva nel 1943 che, nei paesi totalitari, la massa «crede a tutto ciò che le si dice. Purché glielo si dica con insistenza, purché si lusinghino le sue passioni, i suoi odi, le sue parole. È dunque inutile cercare di restare al di qua dei limiti del verosimile: al contrario, più si mente grossolanamente, massicciamente e crudamente, meglio si sarà creduti e seguiti. Egualmente inutile è cercare di evitare la contraddizione: la massa non la noterà nemmeno» (Riflessioni sulla menzogna politica, 1994, p. 39). Difficile non riconoscere la fotografia dell'Italia di oggi e del suo rapporto con la verità. Tuttavia, anche le menzogne di Berlusconi, come i Pentagon Papers studiati da Hannah Arendt, «esigono un trattamento teorico». Non è sufficiente, secondo me, ricorrere alla categoria del «ridicolo» proposta da Alberto Asor Rosa (il manifesto, 3 giugno): il presidente del consiglio italiano rappresenta, infatti, la versione operettistica di problemi comuni a tutte le democrazie avanzate, come il dominio del denaro sulla politica, l'inaridimento della sfera pubblica, il trionfo dello spettacolo sulla deliberazione.
Se Berlusconi sostiene di essere andato alla festa di compleanno di Noemi Letizia per discutere col padre delle candidature per le europee questo è, oltre che palesemente falso, ridicolo, ma a molti commentatori sfuggono le implicazioni di questa (apparentemente innocua) bugia. Il motivo per cui negli Stati Uniti i politici cadono come birilli quando scoperti a mentire in materie relative alla vita personale non è il fatto che gli americani siano più bigotti di noi, quanto il fatto che la menzogna in politica è considerata avere un intrinseco carattere tirannico, quindi inaccettabile in una repubblica. La carriera di John Edwards (candidato alla vicepresidenza nel 2004) e di Elliot Spitzer (governatore di New York) è stata stroncata per questo motivo, non perché fossero imperdonabili le loro relazioni extramatrimoniali.
Da Kant in poi sappiamo che chi mente pone se stesso in una condizione simile a quella di Dio perché crea uno «stato del mondo» possibile ma diverso da quello fattualmente esistente. Essendo lo scopo della menzogna quello di essere creduta, cioè di durare nel tempo come realtà alternativa a quella fattuale, chi mente presume di «poter dominare gli eventi futuri, e quindi di avere un potere assoluto su di te e sulla catena degli eventi possibili che determinano la tua vita» (Nadia Urbinati, Una Città, n. 123, 2004). Ogni menzogna detta da un politico ai cittadini presuppone un potere assoluto incompatibile con la democrazia, oltre che un disprezzo per gli «inferiori» che già da solo sarebbe inaccettabile.
Hannah Arendt sottolinea l'importanza del paradosso che rende la menzogna possibile solo in presenza della verità. La bugia è utile solo nella misura in cui si ipotizza che tutti la accettino come verità, quindi che il regime normale di funzionamento della comunità politica sia la verità. Solo a questa condizione creare uno «stato del mondo» alternativo al reale può essere utile per ottenere vantaggi. Ma la conseguenza è che «Per essere menzognero tu devi volere la verità degli altri, mentre tu ti esenti dal perseguirla. Quindi, di nuovo, ti poni nella posizione dispotica di volere che tutti, eccetto te, sottostiano alla regola della verità» (Urbinati, op. cit.). La menzogna del politico è quindi intrinsecamente antidemocratica, indipendentemente dal contenuto.
Occorre distinguere la menzogna dall'errore, dall'opinione e perfino dalla presentazione tendenziosa dei fatti. L'errore, essendo umano, non intacca il patto tra governanti e governati e così pure la presentazione tendenziosa dei fatti. Se George W. Bush si fosse limitato a dire: «Saddam Hussein è una minaccia per l'America», questa affermazione poteva essere sbagliata ma implicava un'opinione sulla situazione che era legittima nel dibattito politico. Sostenendo, invece, che «Saddam Hussein possiede armi di distruzione di massa» Bush ha creato uno stato del mondo fattualmente diverso dalla realtà, ingannando i suoi concittadini e costringendoli ad accettare scelte catastrofiche come l'invasione dell'Iraq. Per questo, avrebbe dovuto essere rimosso dalla sua carica ma, anche se è sfuggito alla vergogna dell'impeachment, in ogni caso, la memoria della sua fellonia rimarrà.
La deliberazione democratica esige che i cittadini siano il più possibile al corrente della realtà dei fatti su cui decidere, quindi ogni attentato a ciò che Arendt chiama la «solidità» dei fatti, che «danno stabilità al mondo» costituisce una ferita per la democrazia. Se Berlusconi commenta i dati, le cifre, della Banca d'Italia sui lavoratori privi di tutela in caso di licenziamento dicendo: «Questa è un'informazione di Draghi che non corrisponde (sic!) alle cose che emergono dalla nostra conoscenza della realtà italiana» c'è il tentativo di distruggere la fattualità contenuta nelle tabelle del governatore, in altre parole di negare che due più due faccia quattro.
Ora, Hannah Arendt ci ricorda che: «In circostanze normali chi mente viene sconfitto dalla realtà, per la quale non ci sono surrogati; per quanto grande possa essere la tela delle falsità che un esperto mentitore è capace di tessere, non sarà mai grande abbastanza anche se si farà dare una mano di computer, da coprire l'immensità delle realtà di fatto» (Politica e menzogna, 1985, p. 90). Ma che accadrebbe se questo ottimismo fosse non più giustificato? Se qui e ora, la politica fosse solo un sottoprodotto della società dello spettacolo, un format televisivo fra tanti? Il sospetto era stato avanzato da Jacques Derrida nel 1993 in una conferenza alla New School for Social Research dove aveva detto, fra l'altro: «Escludendo la sopravvivenza indefinita della mistificazione, la Arendt fa della storia della menzogna un accidente epidermico e superficiale dell'avvento della verità» (Without Alibi, 2002, p. 69). Jean Baudrillard, nel suo tipico stile apocalittico, scrive: «La fede nella realtà è, tra tutte le forme immaginarie, la più bassa, la più triviale» (Il delitto perfetto, 1996, p. 16).
La stessa Arendt riconosce che: «Le menzogne sono spesso molto più plausibili della realtà stessa, dato che chi mente ha il grande vantaggio di sapere in anticipo quello che il pubblico desidera o si aspetta di sentire» (Arendt, p. 90) e forse il punto è proprio questo: cosa il pubblico desidera sentire. Ogni incantatore di folle, da Mussolini a Hitler a Berlusconi è tale perché ci sono delle folle che vogliono farsi incantare. Non esiste il demagogo capace di strappare il consenso del pubblico solo grazie ad artifici retorici sofisticati o a messe in scena spettacolari: la technè della manipolazione viene dopo. La nomina di Hitler a Cancelliere non dovette aspettare il Trionfo della Volontà di Leni Riefenstahl.
Nello spettacolo politico-operettistico italiano c'è quindi una forte componente di consenso, di desiderio di essere ingannati, una cupidigia di servilismo che viene dalla storia profonda del nostro paese. Le menzogne di Berlusconi sono parte di un cabaret a cui gli spettatori partecipano volentieri perché più scintillante, più comico, più attraente di ogni realtà. Questa situazione può durare a lungo, anche se «arriva sempre il momento in cui la menzogna diventa controproducente» (Arendt, p. 90), che è quello in cui dalla capacità di riconoscere le falsità dipende la stessa sopravvivenza della comunità politica. Nel lungo periodo, le veline saranno dimenticate e tutti ci chiederemo: «Com'è potuto accadere?». Nel breve, i sicofanti e le concubine potranno ancora brindare al loro imperatore vuotando coppe di vino di Cipro.