L'incrocio è sulla Ss 17 all'altezza della zona industriale di Paganica. Dalla statale che porta dall'Aquila a Popoli si stacca una piccola traversa sulla destra con un passaggio a livello per superare i binari, che corrono paralleli all'asfalto. La prima casa a sinistra era quella appartenuta al custode dell'attraversamento, i muri come cartine geografiche, solcati da profonde crepe trasversali. C'è una targa di marmo scolpita con il nome della via. Dice «via dei Martiri». Sullo sfondo le ossa scomposte del dopo terremoto. È la strada principale di accesso a Onna. I martiri sono le 17 vittime dell'eccidio avvenuto per mano tedesca nel giugno del 1944.
Dopo 65 anni il paese deve fare ancora i conti con delle vittime innocenti. Sono 40 questa volta: tanti i morti che piange la piccola frazione. Prima del 6 aprile Onna contava poco più di 300 persone. Chiacchierando con i superstiti del terremoto, tra le tende, qualcuno già parla di «nuovi martiri», seguendo il lungo filo della storia che non si spezza mai.
Tra loro, tra quei 40 uccisi dal crollo della propria abitazione c'era anche Mario Papola, uno degli ultimi testimoni diretti della strage nazista. Mario non è morto nella notte in cui la terra ha tremato. Ha resistito, assieme alla moglie Raffaellina (ferita ad un braccio) per quasi 20 giorni, all'ospedale di Avezzano. Se n'è andato alla vigilia della festa della Liberazione. Lui che non mancava mai alle commemorazioni, soprattutto a quella dedicata ai suoi compaesani uccisi e a sua sorella: Maria Cristina Papola fu la prima delle vittime del 1944.
Il 2 giugno di quell'anno Mario era nei campi con gli animali del padre. Un militare tedesco ubriaco, a cavallo, gli si avvicinò e gli intimò di consegnargli uno dei cavalli che stava pascolando assieme a due vacche. Quello che ne seguì fu il primo atto della tragedia, che ebbe il suo tragico compimento di lì a nove giorni. Nacque infatti una zuffa tra i militari della Wermacht e un ragazzo onnese, Gianni Ludovici, "rapinato" come Mario Papola ma più deciso a non sottostare alla prevaricazione degli invasori. Partì un colpo di pistola, nessun militare rimase ferito. Ma la vendetta nazista calò comunque la propria mannaia. Mario si rifugiò in una stalla assieme ai genitori e alla sorella. Riuscirono a scappare tutti dal retro tranne Maria Cristina, che fu catturata e fucilata di fronte al "pinnerone", perché non voleva rivelare dove si fosse nascosto Gianni che i tedeschi credettero, sbagliando, fosse il suo fidanzato o un parente. Tre colpi di fucile, i fori dei proiettili che uccisero Maria Cristina rimasero a lungo nella porta del palazzo Zuppielli e nella memoria degli onnesi.
Il "pinnerone" è una grossa pietra calcarea che stava all'incrocio di via dei Martiri (all'epoca era via del Fiume) davanti alla villa comunale, nel cuore dell'abitato, usata tanti anni fa come contrappeso o elemento del torchio. Il "pinnerone" è un luogo di incontro, di chiacchiera, rimasto al suo posto per tutto questo tempo, fino al terremoto. Ora è stato spostato, gli abitanti l'hanno voluto all'entrata della tenda mensa del campo di Onna, dove ha mantenuto la sua funzione: punto di sosta, aggregazione, memoria. Un altro anello alla catena della storia: sta lì a significare che Onna si è spostata, provvisoriamente, di qualche centinaio di metri, ma è ancora viva.
Mario Papola in seguito continuò a fare il contadino e ad allevare gli animali. Aveva 19 anni nel 1944: qualche anno dopo nacque sua figlia che volle chiamare Cristina, come la sorella. Raccontò di quel giorno al nostro collega Giustino Parisse, onnese, capo della redazione dell'Aquila de Il Centro, che inserì la sua testimonianza nel libro «Indagine su un massacro», una ricostruzione documentata dei fatti del giugno 1944. Il libro ora è difficile da trovare. La maggior parte delle copie è rimasta sepolta sotto il crollo della biblioteca, della Pro loco di Onna e delle case. L'unico modo per ottenerlo è stato riceverlo brevi manu dal suo autore. Anche la casa di Giustino è crollata. Lì sotto sono morti i suoi figli Maria Paola e Domenico di 16 e 18 anni, e il padre Domenico di 75. La casa della moglie è rimasta in piedi ma ogni giorno lo si vede arrivare assieme a lei e prendere posto con i compaesani nella tenda mensa. Continua a vivere, respirare, raccontare «la sua bella Onna» dalle pagine del giornale.
Fino al maggio del '44 Onna era stata la base per la Bacherkompanie, la compagnia della Wermacht che si occupava della produzione del pane per i militari del fronte. Il fronte era quello della linea Gustav, che correva dal Tirreno all'Adriatico, da Cassino a Ortona. L'esercito tedesco però dovette cedere alla pressione degli Alleati e retrocedere verso nord. La Bacherkompanie lasciò Onna alla fine di maggio, di stanza a L'Aquila c'era la 114esima divisione cacciatori comandata dal generale Hans Boelsen (indicato come responsabile anche delle stragi di Filetto e Gubbio, a pochi giorni di distanza da quella di Onna).
L'atteggiamento di Boelsen nei confronti della popolazione civile seguiva alla lettera le disposizioni di Hitler e Kesserling sul trattamento di chi forniva aiuto e cibo alle bande partigiane e, più in generale, di chi non dimostrava piena sottomissione all'esercito tedesco. L'episodio del 2 giugno fu così il pretesto per una nuova rappresaglia, questa volta molto più sanguinosa, una vendetta che Boelsen volle attuare prima di abbandonare L'Aquila. Vennero rastrellati 14 uomini, in quel momento al centro della cittadina. Alla lunga lista si andarono ad aggiungere anche la madre e la sorella di Giovanni Ludovici, il "responsabile" della zuffa di nove giorni prima, dopo la quale era fuggito sulle montagne con i partigiani.
In 16 furono chiusi in una casa, furono fucilati e poi l'edificio venne fatto saltare con l'esplosivo. E dopo quello altri ancora, su indicazione del segretario del fascio onnese, complice dei militari. Nessuno vide con i propri occhi ciò che accadde. Tutti gli abitanti furono allontanati con la minaccia delle armi. Nessuno vide, tutti sentirono: il boato, la terra che tremava, la polvere che invadeva le vie della città come un sudario sopra le ossa distrutte delle abitazioni. La descrizione di una scena di 65 anni fa, così simile alle parole di chi ricorda la notte del 6 aprile: il rumore profondo, la nebbia fatta di polvere, le macerie e i morti.
Furono in tutto 17 le case minate. Una, in piazzetta del Panettiere, apparteneva, allora come adesso, alla famiglia di Dora Colaianni. Dora nel 1944 studiava ragioneria a L'Aquila e sapeva un po' di tedesco. Rientrando a casa con la sorella aveva sentito i militari della Wermacht parlare di dove piazzare l'esplosivo. Così era riuscita a mettersi in salvo con lei. La sua casa fu distrutta pochi attimi dopo che avevano ritrovato i genitori e il fratello Ennio, salvi tutti quanti.
Lei e la sua famiglia ricostruirono la loro casa, non si spostarono mai di lì. «Dora la postina», così era conosciuta in paese, non aveva mai fatto la portalettere ma per 40 anni aveva lavorato e diretto l'ufficio postale di Onna. Un'istituzione in paese: teneva la contabilità ai contadini che andavano in paese a vendere il latte, per evitare che venissero raggirati. Scriveva e leggeva la corrispondenza a chi, ed erano tanti ancora nel secondo dopoguerra, non era capace a leggere e scrivere. «Quando qualcuno entrava all'ufficio postale - racconta sua figlia Patrizia - lei sapeva già di cosa avesse bisogno. Sempre con la massima discrezione». Quando c'era un dubbio da risolvere, si preferiva sempre chiedere un consiglio a Dora.
Anche lei testimoniò a Giustino Parisse e Aldo Scimia quello che vide quel giorno di 65 anni fa. Tra le lacrime che le provocavano il ricordo e la paura di quegli attimi descrisse la fuga dai tedeschi, il boato e le macerie. Ed è lì, nella sua casa minata e ricostruita, che il terremoto l'ha sorpresa. Si è potuta appena rendere conto di quello che era successo, che non si trattava di esplosivo, questa volta. Patrizia e il marito sono riusciti a strapparla alle macerie, sollevandola di peso con la carrozzina e trasportandola fino a un luogo più sicuro. È morta diversi giorni dopo in ospedale, anche nei suoi occhi la doppia tragedia dei martiri di Onna.
I tedeschi lasciarono L'Aquila la notte tra il 12 e il 13 giugno 1944, mentre l'esercito alleato arrivava alle porte della città. Ora sono tornati per prestare soccorso. Un gruppo di volontari della protezione civile di Berlino ha piantato le tende proprio all'ingresso del campo sfollati, pochi giorni dopo il terremoto. E proprio dalla Germania è arrivata la promessa di fondi per la ricostruzione totale della frazione. Quasi un gesto riparatore per una cicatrice del passato mai rimarginata del tutto: la strage di Onna è una tra le tante rimaste senza un responsabile accertato e punito. Senza un processo, chiusa in un fascicolo ben nascosto nel famigerato "armadio della vergogna". Ma ora Onna non sente il bisogno di processi. Solo di una speranza per ripartire, una speranza che giunge dalla Germania, proprio da dove, 65 anni fa, arrivò la distruzione.
Per la prima volta, quest'anno, la cerimonia di commemorazione sarà divisa in due momenti. L'ambasciatore tedesco in Italia Michael Steiner presenzierà alla processione che dalla chiesa-tenda del campo porterà fino alla lapide commemorativa di palazzo Ludovici, la casa che fu fatta saltare in aria, la tomba delle 16 persone uccise dai tedeschi. Poi nel pomeriggio partiranno i pullman per Roma: oltre 160 onnesi saranno ospiti nella residenza dell'ambasciatore. Due commemorazioni, quelle di oggi, che sommano i due dolori di Onna in un unico sforzo teso a guardare avanti per ricostruire, di nuovo, questa volta tutto quanto.