PRIMA

NON SOLO CONTRO

CASTELLINA LUCIANA,

Le ragioni italiane per cui andare a mettere una scheda di sinistra nelle urna sono note. Ma non è solo per dare un segnale antiberlusconiano, che pure è di per sé importante: è anche per specifiche ragioni europee che vale la pena di votare per una delle due liste - Rifondazione e Sinistra e Libertà - che sono in campo. Perché in ambedue, sia pure con qualche incertezza e contraddizione, c'è chi è riuscito ad assumere un atteggiamento seriamente critico nei confronti dell'Unione, fino a rifiutare un voto favorevole alla proposta di Costituzione (ora ridimensionata a Trattato di Lisbona), senza tuttavia scegliere per questo di abbandonare la sfida europeista.
Può sembrare ovvio ma non lo è. Si è trattato infatti di un'opzione maturata nel tempo e persino sofferta, che ha dovuto vincere le spinte della stragrande maggioranza delle sinistre alternative del continente, drasticamente contrarie anche solo a prendere in considerazione il processo di costruzione dell'Unione, ritenuto troppo segnato dalla originaria (e poi rafforzata) impronta liberista; e contemporaneamente di non farsi contaminare dalla mitologia europeista, acritica e retorica, di cui è stato preda, a partire dall'inizio degli anni '80, il Pci e i suoi successori. Così come del resto il grosso dei partiti socialdemocratici degli altri paesi. Al punto che qualsiasi osservazione polemica su questa o quella scelta di Bruxelles è stata sempre (ed è tuttora) bollata sbrigativamente come «antieuropeista», un'accusa «infamante», utilissima per bloccare qualsiasi serio dibattito sulla questione.
Laddove in realtà l'accusa si sarebbe dovuta rovesciare, giacché è difficile considerare «europeista» chi ha accettato che questa nostra Unione fosse via via costruita cancellando ogni aspetto del modello europeo, per somigliare sempre più a un pezzo qualsiasi, omologato, di mercato globale. Così lasciando priva di risposta la domanda di senso che pure è essenziale per un progetto così ambizioso.
E così è accaduto che di fronte al no che ha accolto tre referendum su quattro, e di fronte, soprattutto, al palese disamore manifestato per l'avventura europeista dal crescente astensionismo, si sia preferito sorvolare sulle sue radici reali, non fermarsi a riflettere, e invece procedere frettolosamente senza nemmeno prenderle in conto. La ragione prima della crisi sta proprio in questo spocchioso rifiuto di capire; ed è solo proponendosi di rispondere seriamente al quesito «perché l'Europa» che si può ora sperare di uscirne in avanti anziché con un fracasso, coperto dalla illusione di un impossibile ritorno a sovranità nazionali ormai svuotate di poteri reali, che segnerebbero solo la rinuncia a tentare, per difficile che sia, di darsi una governance un po' più democratica a livello globale. CONTINUA | PAGINA5
Non si tratta solo di riparare ai guasti democratici del Trattato, che incorpora per intero quelli precedenti di Maastricht e di Amsterdam, dando solo un po' più di forza (ma si tratta sempre più di valori che di diritti) a quello di Nizza, un deciso passo indietro rispetto alla nostra e ad altre Costituzioni europee; né solo di correggere l'obbrobrio dello squilibrio di poteri fra gli organi istituzionali che oggi conferisce ad un organo burocratico come la Commissione ogni diritto di iniziativa. Né, ancora, solo di concedere genericamente più poteri al Parlamento europeo, che sarebbe cosa giusta in sé se però si rendesse realmente responsabile di fronte alla società europea il Consiglio che dall'Assemblea riceve il mandato. Perché questo è il punto essenziale: in assenza di un'opinione pubblica europea comune, di partiti e di sindacati realmente europei, e di strumenti di informazione e formazione comuni, i commissari rispondono ciascuno al frammento di popolazione di cui portano la cittadinanza, dunque a nessuno realmente.
Di qui viene il vero vulnus democratico dell'Unione, quello per cui a suo tempo la Corte costituzionale tedesca aveva decretato l'incostituzionalità del Trattato di Maastricht: per assenza di «demos», aveva detto, e cioè di quel tessuto articolato della società civile che solo può rendere democratico il potere istituzionale.
Di qui viene anche la paralisi politica dell'Unione, giacché - come ha giustamente scritto Hobsbawn - in queste condizioni, mentre ognuno di noi è disposto ad accettare la legittimità del proprio governo nazionale anche se non gli piace, nessuno è disposto a considerare legittimo un esecutivo di cui ignora persino i nomi. Nessuna opzione politica può così avere qualche forza.
Questo della costruzione di una società civile europea articolata e forte, di una nuova cittadinanza plurale ma dotata di soggettività, è il terreno su cui occorrerà operare se si vuole salvare l'Europa.
È una scommessa che va colta. Ma bisogna pur dire che anche su questo, con tutte le loro debolezze, le sinistre alternative hanno fino a oggi fatto molto di più degli altri. Voglio dire che ha fatto di più per l'Europa il Forum sociale europeo negli ultimi anni, e, prima di questo, il movimento pacifista degli anni '80, che non mille dotti seminari. Che nel Parlamento Europeo ci siano deputati che a questo impegno diano un punto di riferimento non è cosa trascurabile.

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