CULTURA & VISIONI

Cronache DALLE RETROVIE

LO SGUARDO DISILLUSO DEL REPORTER
TONELLO FABRIZIO,

Nella letteratura di guerra che sopravvive al tempo i politici e i generali non fanno mai bella figura: inutile cercare un'immagine positiva dei grandi capi in Remarque, in Barbusse, in Hemingway o in Dos Passos. Occorre scavare tra i volumi oggi dimenticati nei magazzini delle biblioteche per trovare un passo come questo di Rudyard Kipling su Vittorio Emanuele III al fronte durante la prima guerra mondiale: «Nessun equipaggiamento, o seguito speciale lo distingue da qualsiasi altro generale in tenuta di guerra, fino alla semplice striscia che indica un anno di servizio di guerra. Egli incede sobrio, leale, pronto, con una rigida semplicità tra i suoi soldati e fra i molti pericoli della guerra» (La guerra nelle montagne, Passigli, 2006).
Più facile incontrare devastanti immagini di crassa incompetenza e palese imbecillità, come quelle dipinte da Emilio Lussu: «Il generale guardò lungamente, rovesciò l'alzo e puntò con competenza. Con calma, scaricò, una dopo l'altra, tutte le sei cartucce del caricatore. I soldati della corvée s'erano fermatti, rispettosi, e guardavano. Il generale si rivolse a loro: "Ho voluto dare, personalmente, una piccola lezione a quei facinorosi. Dite pure ai vostri compagni che il vostro generale non ha paura d'impugnare il fucile come uno dei suoi soldati". Egli era soddisfatto e anche un po' commosso. I soldati sapevano bene che quella non era una feritoia contro le trincee nemiche. Io non ritenni necessario fargli osservare ch'egli aveva sparato per terra e sui nostri reticolati» (Un anno sull'Altipiano, Einaudi, 2000, ed. originale 1945).
Merita di citare anche Gian Carlo Fusco: «Mussolini... pareva improvvisamente invecchiato, appesantito. Sprofondato nel sedile della sua grossa Lancia grigioverde (lui stesso aveva dato una mano a spingerla, quand'era rimasta incagliata nel fango, a Tepeleni), viaggiava fissando ostinatamente la nuca dell'autista. Non rispondeva ai saluti, non guardava neppure i militari e i civili allineati lungo la strada, al suo passaggio. Accanto al dittatore luccicavano ogni tanto gli occhiali di Cavallero. Il successore di Badoglio aveva un'aria preoccupata e infreddolita. In mezzo al suo volto grigio come la cenere, sotto la bustina irrigidita dalla stecca d'ordinanza, spiccava il naso arrossato da un incipiente raffreddore» (Guerra d'Albania, Feltrinelli, 1961).

La visita del proconsole
Le guerre americane in Iraq e in Afghanistan hanno trovato il loro cronista: Dexter Filkins, del New York Times, la cui prosa sotto tono, mai retorica, sta alla pari con quella di Remarque o Hemingway (anch'essi giornalisti prima di imporsi come scrittori) nel rivelare la follia di questi conflitti, l'ignoranza di chi li aveva voluti, la trasformazione di imberbi diciottenni dell'Iowa o del Minnesota in macchine per uccidere. Questo è l'asciutto racconto di una visita di Paul Bremer a un ospedale, una clinica ostetrica nel nord dell'Iraq dove i neonati prematuri morivano semplicemente perché non c'era energia elettrica per alimentare le incubatrici: «Il Chinook attraversava il cielo torrido, inoffensivo come un dirigibile. Sembrava galleggiare sul calore che si levava dalla pianura... Bremer scese e si immerse nella calura. Nonostante la temperatura, indossava cravatta rossa e abito blu con un fazzoletto bianco che gli usciva dal taschino, messo in evidenza da un paio di scarponi marrone chiaro dell'esercito svizzero. Il mento di Bremer sporgeva sicuro. Sembrava che fosse venuto per un pranzo a Hyannisport».
Le frasi secche di Filkins scolpiscono sulla pagina l'indifferenza del proconsole di Bush per le tragedie del paese che dovrebbe amministrare: «Scheletrici e malnutriti, i neonati erano stati messi l'uno accanto all'altro. Un bambino di circa tre giorni si dimenava in modo scoordinato tra le braccia della madre. Un altro con la pelle avvizzita giaceva immobile sulla schiena: aveva una tutina rossa e fissava il vuoto ... Bremer fece una smorfia. "Non mi piace per niente vedere queste cose" ammise» (Guerra senza fine, trad. di Pierluigi Micalizzi, Bruno Mondadori, 2009, pp. 372, euro 25).

In felpa e calzoncini
La guerra a bassa intensità non assomiglia alle trincee delle Fiandre nel 1918, o al rogo di Dresda nel 1945 descritto da Kurt Vonnegut in Mattatoio n. 5. Per quanto crudele, con le sue autobombe che esplodono nei mercati e i suoi cecchini nascosti sui tetti, è piuttosto un luogo dell'assurdo, una pièce di Beckett o di Ionesco dove persone normali, padri di famiglia che da civili allenano una squadra scolastica di football americano, dicono tranquillamente che «con una dose massiccia di paura e di violenza e un bel po' di soldi, penso che potremo convincere questa gente che siamo qui per aiutarla».
L'interlocutore di Filkins era il colonnello Nathan Sassaman, un quarantenne in felpa e calzoncini, che seduto in uno Starbucks spiegava al giornalista quanto fosse orgoglioso della figlia Nicole, capace di stargli dietro in una corsa di diecimila metri. A Samarra, due suoi soldati avevano fermato due giovani iracheni, li avevano ammanettati e li avevano costretti a gettarsi nel Tigri. Uno dei due era annegato. Sassaman li aveva coperti, mentendo agli investigatori e la sua carriera nell'esercito era finita. «Una sciocchezza» fu il commento del colonnello mentre mescolava il suo caffè, palesemente non pentito del programma di «punizioni non letali» che aveva escogitato per tenere sotto controllo la popolazione civile.
Filkins non è un giornalista militante: in tutto il suo libro non si parla di Abu Ghraib e delle torture avvenute nella prigione americana ma proprio la normalità dei suoi reportage ingigantisce l'impressione di follia della guerra in Iraq: «Una volta, al ritorno da una missione a Samarra, i ribelli spararono un colpo di mortaio sul suo insediamento, come per dargli il bentornato. (Sassaman) rispose con ventotto colpi di canone da 155 mm. E quarantadue colpi di mortaio. Ordinò due incursioni aeree, una con bombe da duecentocinquanta chilogrammi e l'altra con bombe da una tonnellata. Dopo, i suoi uomini trovarono un cratere grande come una piscina».
E ancora: «A metà mattina, il battaglione di Sassaman aveva perquisito settanta case e interrogato decine di uomini, senza trovare un fucile o un sospetto. Moltiplicando per mille il raid di Abu Shakur, non era difficile concludere che si stava perdendo la guerra: se molti iracheni contrastavano gli americani prima che questi entrassero nel villaggio, quando se ne andarono il numero di iracheni che li odiava era notevolmente aumentato. Gli americani si facevano nemici più velocemente di quanto riuscissero a farne fuori».

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