IL MANIFESTO INTERNAZIONALE SPECIALE

SE IL PARTITO BLINDA LA MEMORIA

PIERANNI SIMONE,CINA/PECHINO

«Dopo vent'anni posso capire perché la gente non ne parla. I giovani di oggi non sanno cosa è successo realmente. D'altra parte anche io ho ricevuto un'educazione comunista e ho sempre pensato che il Partito avesse ragione. Da quella notte, ho cominciato a dubitare». Zhang Xianling è una delle madri di Tiananmen. L'ultima volta che ha visto suo figlio vivo è stato vent'anni fa. Lo aveva incontrato per rassicurarlo, proprio in quei giorni di protesta: «Tranquillo - aveva detto al figlio poco prima che tornasse in piazza - l'esercito non sparerà mai sul suo popolo». Invece suo figlio, 19 anni, fu una delle tante vittime della risposta del governo cinese alle contestazioni studentesche. L'esercito popolare e un intreccio di lotte interne al partito provocarono un trauma nazionale e internazionale, spingendo le vittime di quelle giornate verso un blindato dimenticatoio storico cinese. Per vent'anni all'avvicinarsi della fatidica data del 4 giugno, e più in generale in prossimità dell'inizio delle contestazioni nella piazza simbolo di Pechino, il governo cinese ha sempre provato a chiudere ogni spazio che potesse far riaffiorare quegli eventi. Nel ventennale poi, la paranoia e l'ansia di controllo hanno raggiunto punte altissime: internet lento e censurato (youtube è più di un mese che non funziona), abbattimento anche di gran parte dei proxy disponibili, il sistema che consente di ovviare alla censura cinese, controllo rigoroso di quanto accade per le strade. Sul Ming Pao , un giornale di Hong Kong, si denuncia l'impossibilità di utilizzare negli articoli la data del 4 giugno. Spuntano notizie circa censure di speciali sull'evento e si conta il numero dei giornalisti che hanno preferito andare in vacanza durante questi giorni: «Anche nel caso in cui avessero dei reportage importanti, molti giornalisti hanno deciso di aspettare che passi il 4 giugno». Non devono accadere neanche le gaffe dell'anno scorso: una foto di un ferito o un necrologio apparsi su alcuni giornali cinesi. Si disse che chi gestiva quelle pagine fosse troppo giovane per sapere cosa fosse realmente successo in Tiananmen vent'anni fa. Una memoria cancellata e tenuta in piedi solo da chi non ha niente da perdere, perché ha perso tutto. «Sono stanca ma non ho paura, perché dovrei averne? Sto lottando per mio figlio e le altre vittime e so di avere ragione. Non mi preoccupa morire, ma voglio che sia chiaro quello che sto facendo: cerco la giustizia e unitamente a questo ho anche una responsabilità come madre». Sono le parole di Zhang Xianling, donna energica e coraggiosa, stancata dai tanti giornalisti stranieri cui ha avuto modo di raccontare la sua storia. Per aprire, almeno, un dialogo, ancora prima di ritrovare la verità: «Il nostro governo sta dialogando con tutti, con il Giappone, con i nazionalisti di Taiwan: perché non può dialogare anche con noi?» E la domanda è semplice: vuole sapere perché suo figlio, e tanti altri, morirono in quel modo in quel tragico giugno. Sulle eventualità che eventi del genere possano succedere ancora Zhang Xianling ha le idee piuttosto chiare, anche perché in vent'anni è cambiato tutto: «Il governo dice che se non avesse represso il movimento studentesco, oggi non ci sarebbe questa crescita economica. Sbagliano. Se non avessero abbattuto quel movimento, oggi ci sarebbe meno corruzione. Il sistema legislativo cinese è migliorato molto, vero, ma la corruzione dilaga. Non credo che possa accadere un fatto del genere, di nuovo, nella Cina odierna. I pensieri degli studenti di oggi sono pratici: cosa sarà della mia vita, il mio lavoro. La loro insoddisfazione si risolve comprando una casa o un'auto. Oggi non sorgerà alcun movimento giovanile, perché le loro preoccupazioni sono materiali. Però ci sono gli operai e i contadini che invece esistono e hanno capito che devono alzare la testa per proteggere i propri diritti. Questo a mio modo di vedere è una riflessione democratica». La democrazia, parola abusata: secondo molti cinesi non identifica neanche perfettamente quanto accadde nel 1989. È tutto molto più complicato. I pochi che accettano di scambiare due parole su quella data, identificano la protesta degli studenti con la volontà di cambiare il registro delle riforme, chiedendo più trasparenza e meno corruzione, piuttosto che con una richiesta esplicita di democrazia. E per tutti, anche quelli che criticano l'intervento di allora dell'esercito, la risposta a 20 anni di distanza è pratica e cinica: «Se non avessero fermato gli studenti, rischiavamo di ritrovarci come l'Unione sovietica, un caos totale», afferma D., qualche ruolo in alcune fiction televisive e un futuro che spera da star. Luan , caos, parola rischiosa e situazione sociale rifiutata da Governo e cinesi stessi, specie nel 1989 quando gli echi della rivoluzione culturale erano ancora presenti negli incubi di molte persone. «Forse Deng aveva ragione - dice A., tecnico cinese di una società giapponese di prodotti high tech ma sicuramente mandare l'esercito contro il proprio popolo è qualcosa che non fece neanche il peggiore degli imperatori». Storia, tradizione, modernità e impossibilità di farsi un'idea reale, vista la totale mancanza di informazioni al riguardo. «Quando il governo dirà come sono andate le cose, se ne potrà parlare tranquillamente. D'altronde 20 anni sono troppo pochi per avere un'idea di quanto successo realmente», afferma Li Xiaobin, fotografo cui è stato affidato il compito di raccogliere, in istantanee, i trent'anni di riforme cinesi. Ci sono le foto del 1976, dei costumi che cambiano, ma neanche una su quegli eventi del 1989. Eppure lui era lì, ma l'argomento è off limits. «Democrazia - sussurra Zhang Xianling - quello che dobbiamo dire è che in Cina la storia dice che avevamo un imperatore che gestiva il potere attraverso la sua famiglia. Oggi abbiamo un Partito che fa lo stesso e gestisce il potere per il potere. Il termine occidentale corretto è feudalesimo: una famiglia centrale che detiene il potere, e il resto, il popolo. Nella testa dei cinesi questa è la struttura portante. Nel concetto di democrazia esiste il dialogo, in Cina invece esistono livellamenti di potere che rendono impensabile ogni forma di comunicazione». Tra la commozione e la voglia di lottare c'è anche spazio per una personale opinione sulla democrazia: «Libertà di stampa e un sistema giudiziario giusto. Finora quello che è giusto in Cina, lo ha sempre deciso il Partito».

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