CULTURA & VISIONI

Orientalismo ALLA ROVESCIA

TORINO 2009 - DA SALMAN RUSDHIE UNA ENIGMATICA EUROPA
ALBERTAZZI SILVIA,

Di fronte all'ultimo romanzo di Salman Rushdie (appena tradotto in italiano e oggi sul palcoscenico della Fiera del Libro di Torino insieme al suo autore), è forte la tentazione di reagire come lo stesso scrittore indoinglese all'indomani della notte degli Oscar, quando non esitò a etichettare il film vincitore, Slumdog Millionaire di Danny Boyle, come «ridicolo», «improbabile» e «assurdo». Tutti aggettivi che si adatterebbero anche al suo L'incantatrice di Firenze, così come non sarebbe ingiustificata una certa indignazione da parte dei lettori italiani di fronte al modo in cui Rushdie riduce la Firenze rinascimentale a una «cultura notturna ossessionata dal sesso».
Già all'uscita inglese del volume - più di un anno fa - l'agenzia fiorentina del turismo, nel suo sito Internet, aveva stigmatizzato come nel romanzo Firenze apparisse «un luogo barbaro, sconvolto da guerre fratricide interne e con torture pubbliche», mentre il «Corriere della sera» aveva elencato una serie di imprecisioni del testo - alcune piuttosto gravi per un romanzo che si autodefinisce «storico»: il Bronzino che da pittore diventa scultore, Francesco Vettori, ambasciatore presso la corte pontificia di Leone X, qui declassato a oste, Firenze dipinta come un luogo di continua deboscia, i cui abitanti «si sodomizzavano negli androni dei palazzi» (come spiegò Rushdie stesso in un'intervista a un mensile inglese, per giustificarsi).
Un fantastico in eccesso
Fu facile comunque allora, per la critica bendisposta nei confronti dello scrittore, rimandare al mittente ogni accusa, ricordando come la vena rushdiana sia eminentemente favolistica: adepto del credo calviniano secondo cui nella favola si può trovare il catalogo di ogni destino umano, Rushdie usa il registro magico per raccontare la realtà. Come spiegava già nei primi anni Ottanta, in un dialogo alla Bbc con Günter Grass: «nel tipo di contesto in cui ho iniziato a pensare si accettava che le storie dovessero essere false ... E si credeva che, raccontando storie in quel modo, in un modo meraviglioso, si potesse veramente dire una verità che non si poteva dire in altro modo».
Prendere o lasciare, dunque: o si giustificano i suoi eccessi fantastici in quanto inscindibili dal registro fiabesco, o lo si rigetta in toto.
L'incantatrice di Firenze, anche in virtù dell'ambientazione in un passato remoto e in una serie di spazi «principeschi», è il romanzo più favoloso che Rushdie abbia scritto finora. Sarebbe facile dunque giustificarlo su questa base: purtroppo, invece, è forte la tentazione, dopo l' uscita anti-Millionaire dello scrittore, di ritorcergli contro le accuse da lui mosse al film di Boyle, concordando al tempo stesso con la giornalista che per prima ha dato la notizia, sul «Guardian», Alison Ford, la quale iniziava il suo pezzo con queste parole: «Si potrebbe pensare che un autore tra i cui personaggi si trovano individui con poteri telepatici e angeli non dovrebbe preoccuparsi troppo della credibilità di una storia».
Riappropriazioni indebite
Si potrebbe pensare, vorremmo aggiungere, che il detto autore non dovrebbe preoccuparsi dell'improbabilità di una trama, proprio mentre sta ancora promuovendo un romanzo in cui le vicende di due celebrate corti cinquecentesche - quella medicea, a Firenze, e quella del più famoso imperatore Mogol, Akbar, in India - sono legate dalla presenza di fantomatiche donne fatali in grado di attraversare il tempo e lo spazio, avventurieri che reclamano imprevedibili agnizioni, pittori che vengono inghiottiti dai propri quadri, giganti albini, pozioni stregate, profezie, unguenti afrodisiaci, specchi magici, profumi miracolosi.
Giustamente, qualcuno ha fatto il nome di Buz Luhrmann per illustrare come Rushdie tratti la storia in questo libro: in effetti, l'intera vicenda sembra narrata secondo i modi e nei colori del Luhrmann di Moulin Rouge! Alla Parigi di cartapesta del regista australiano, eccessiva e barocca, corrisponde la Fatehpur Sikri fatta costruire da Akbar, una sorta di paradiso pagano in cui possono convivere Jodha, la magnifica (e inesistente) regina immaginata da Akbar e le carnali prostitute dei bordelli. Al racconto di Luhrmann, portato avanti attraverso l'anacronistico ricorso a canzonette di largo consumo, corrisponde il periodare rushdiano, con le sue frasi lunghissime in cui reale e immaginario si mescolano, e personaggi storici (da Machiavelli a Vespucci, da Savonarola alla regina Elisabetta I, da Akbar a Botticelli) confondendosi con creature di fantasia, attraversano più e più volte il confine tra vero e falso, realtà e apparenza.
Il confronto tra l'India dei Mogol e la Firenze rinascimentale, raccontato in un'epica fantastica che si ispira tanto alle Mille e una notte quanto ai nostri Ariosto e Boiardo, senza dimenticare il postmoderno ludico di John Barth (Chimera), il realismo magico di García Márquez (Cent'anni di solitudine, L'autunno del patriarca), le digressioni narrative tra reale e immaginario di Pamuk (Il mio nome è rosso, dove sono citati anche i pittori della corte di Akbar) e l'onnipresente Calvino (i dialoghi tra Akbar e Mogor dell'Amore sono modellati su quelli tra il Gran Khan e Marco Polo nelle Città invisibili), si risolve a tutto vantaggio del subcontinente indiano: la figura di Akbar il Grande (1542-1605) è il perno del romanzo. A lui si devono riflessioni sulla sovranità dell'individuo e sulla pluralità dell'io che sono di norma assimilate al pensiero occidentale e che in tal mondo vengono riappropriate all'Oriente.
Machiavelli il capobanda
«Sono idee che si sono sviluppate in Occidente», ha spiegato Rushdie, «ma che in maniera leggermente diversa si sono sviluppate anche all'Est - l'idea di tolleranza, di libertà, di parola, sessuale, fino al limite dell'edonismo ... Considerarle specifiche di una sola cultura è negare la natura umana». Così Akbar, che nel libro di Rushdie è il paladino della responsabilità individuale, il costruttore di una città perfetta che però muore di sete e il tessitore di un sogno d'amore che, in ultima analisi, è solo fantasia autoerotica, può giungere alla fine della storia ad affermare che «la maledizione della razza umana non è che siamo differenti l'uno dall'altro, ma che siamo troppo uguali».
Quanto al «Machia» (così Rushdie chiama Machiavelli), egli appare dapprima come un giovane capobanda, convinto di esercitare poteri occulti sulle donne, alla testa di un terzetto di adolescenti che comprende, oltre a lui, Antonino Argalia e Ago Vespucci, cugino di Amerigo, il cui unico intento sembra essere perdere tempo nei boschi, arrampicandosi sugli alberi, masturbandosi e raccontandosi strane storie. Dopo la partenza dei due amici verso incredibili avventure (Argalia da soldato di ventura diviene condottiero ottomano, mentre Vespucci finisce alla corte di Akbar), il Machia, rimasto a Firenze, diventerà il più autentico trait d'union tra i due mondi, India ed Europa, pur non allontanandosi mai dalla sua città, di cui anzi viene ad incarnare le ambizioni, la lascivia, la cultura e l'egotismo. A lui si deve, infatti, un'opera, Il Principe, nella quale Rushdie legge uno specchio delle teorie in materia religiosa e politica di Akbar il Grande.
Caduto in disgrazia con l'ascesa dei Medici al potere, il Machia sperimenta la tortura, la depressione e una prematura vecchiaia in compagnia di una moglie sfiorita che, pur avendo troppo subito da lui in passato, non riesce a disprezzarlo. Anzi, conscia del suo genio, non sopporta di vederlo umiliarsi di fronte ai potenti per riguadagnarne la stima, scrivendo quel «piccolo specchio per principi», che a lei appare "tanto scuro che (lo stesso autore) temeva non sarebbe stato gradito".
L'estrema deriva
Alla luce di queste considerazioni, si potrebbe leggere L'incantatrice di Firenze come un capovolgimento dell'ottica orientalista: qui, in un'ottica indiana, è l'Europa a essere esotica, surreale e incomprensibile, mentre l'India appare più tollerante e progressista. Tuttavia, non va sottaciuto che, malgrado le vasta bibliografia storica posta in appendice, a conferma della ricerca sottesa alla narrazione, entrambe le città al centro della vicenda sono a un tempo mondi reali e immaginari, dove si agitano personaggi storici e personaggi d'invenzione, che vivono situazioni plausibili e implausibili, favolose e realistiche. Forse una sola parola, da non intendersi necessariamente in accezione negativa, potrebbe definire questo romanzo: kitsch. Milan Kundera ha scritto che il kitsch «designa l'atteggiamento di chi vuol piacere ad ogni costo e al maggior numero di persone»: vero è anche, però, che il kitsch raggiunge il risultato ambivalente di piacere immensamente o immensamente irritare.
Non stupisce che, per una Ursula K. Le Guin che all'uscita del libro in Inghilterra arrivava ad esclamare: «Oggi anche noi anglofoni abbiamo il nostro Ariosto, il nostro Tasso, rubato all'India», i compatrioti di Ariosto e di Tasso possano esprimere qualche perplessità sull'estrema deriva dell'opera rushdiana. Ci confidava Rushdie stesso tre anni fa, nel corso di un'intervista apparsa su queste pagine nel marzo 2006, che la favola per lui aveva un senso solo se suffragata da un solido e riconoscibile background sociale e citava Dickens come modello di narrativa fiabesca adulta. Ed è davvero un peccato che in questo ultimo romanzo la Storia naufraghi nell'oceano delle storie e l'ombra di Dickens non compaia mai, neppure in filigrana.

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