Uri Caine esce sul palcoscenico in un rigoroso abito da sera consono alla maestosa cornice del palladiano Teatro Olimpico. Zorn si prende un pizzico di libertà in più: maglietta nera anche lui, ma con pantaloni mimetici e scarpe da atletica. Ma se c'è qualcosa di leggermente inelegante, nel modo di porgere la serata - apertura della quattordicesima edizione di Vicenza Jazz - è caso mai nell'intestazione: An Evening with John Zorn, che per una esibizione divisa con un partner che oltre a tutto è una conoscenza di vecchia data e un amico, e della stessa generazione, e con un suo status nel panorama della musica di oggi, non è di una squisita gentilezza. Ma che Zorn sia un filino autocentrato non è certo una novità. D'accordo, lui ci mette le musiche: i materiali tematici di impronta ebraica su cui Caine impernia il suo solo - prima parte del concerto - sono di Zorn. La melodia del brano di avvio ha sì tutte le sembianze di una melodia ebraica, ma trattata dal pianista col piglio ritmico e cantabile di uno che è cresciuto a Philadelphia e da ragazzo ha studiato Mozart e si è fatto le ossa nei club di jazz e lavorando con personaggi come Philly Joe Jones ma ha anche suonato nei bar dove si faceva black music e ha interiorizzato il Philly Sound. È la stura di una carrellata di brani in cui le melodie di carattere ebraico sono cucinate vuoi in una chiave free non senza un pizzico di inquietudine da novecento europeo; vuoi all'insegna di un romanticismo un po' sdolcinato; vuoi invece con un romanticismo da sturm un drang, tempestoso e materico. Oppure con un'esposizione del tema in cui quel che di sofferto c'è in molte melodie ebraiche si muta in una malinconica, disincantata lievità alla Satie; o il pianoforte sembra cercare la fragilità di un carillon; o ancora l'interpretazione assume un che di francamente classicheggiante; o di galoppante, dinamico, martellante; o in un altro brano la melodia piega verso un edonismo jarrettiano non senza il rischio, ad un certo punto, di una cantabilità baglioniana. Divertente: ma la sensazione è che non sia nel materiale tematico, o nelle sue risonanze culturali, che si cerchi una ragione profonda per una certa elaborazione, ma che al contrario esso sia solo il pretesto per delle «variazioni» che sul materiale tematico si applicano. Gioco che rimane in superficie e che anche sul piano della superficie non è certo particolarmente sofisticato, né dal punto di vista concettuale, né da quello della qualità pianistica.
Esce Caine e entra Zorn, col sax alto e portandosi dietro una sedia, su cui appoggia un piede. Comincia con un tratto senza soluzione di continuità, utilizzando la respirazione circolare: fischi, colpi d'ancia, soffi, reiterazioni; e poi barriti, squittii, per qualche istante la ripetizione di una successione di note che sembra evocare il minimalismo di un Phil Glass, e qui e là sembra di percepire dei barlumi di melodie di impronta ebraica, come quelle utilizzate come canovaccio da Zorn in Masada, come quelle proposte da Caine nella prima parte, ma qui in uno stato fantasmatico, quasi impalpabile. L'improvvisazione correntemente jazzistica è drasticamente bandita dal solo di Zorn: è tutto un succedersi di minisequenze, di miniepisodi, frammenti, schegge, montati in rapida sequenza, con quella tecnica compositiva che richiamò l'attenzione sul primo Zorn, che qui la ripropone nella dimensione solistica. Il sassofonista appoggia come è solito fare la campana dello strumento contro la coscia, con un effetto sordinato; trae ad un certo punto dal sax un suono che sembra di uno strumento etnico, dal forte al pianissimo, il virtuosismo è straordinario. E quando la reiterazione comincia a produrre un effetto ipnotico è subito rigorosamente abbandonata, mentre i momenti parossistici sono lucidamente avanzati senza nessun abbandono: tutti segmenti, pezzi, elementi di una composizione. Non una semplice giustapposizione di componenti effettistiche, ma una creazione di una forma che tiene col fiato sospeso per destrezza e intensità. Se Zorn con le sue braghe mimetiche stride sullo sfondo del superbo proscenio, certo con uno stile architettonico assai diverso ma c'è qualcosa che collega l'improvvisazione di Zorn col sapiente spiegamento di colonne, semicolonne, statue, bassorilievi, porte e tabelle della frons scenae di Palladio. C'è uno Zorn a volte kitsch di se stesso, uno Zorn che - ormai brand di successo - ha buon gioco a spacciare surrogati di avanguardia, a solleticare il senso di superiorità estetica dei fan da cui è venerato facendoli sentire partecipi di riti in cui dà loro l'illusione di essere diversi dal le bourgeois che lui fa mostra di épater. Poi c'è uno Zorn che è ancora avanguardia autentica.
Rientra - terza parte del concerto - Caine, i due improvvisano per qualche pezzo sempre su melodie di fattezza ebraica: piacevole, ma siamo tornati sul terreno della banalità, del contorno. Forse leggermente inelegante, ma non del tutto inappropriata, l'intestazione An Evening with John Zorn.