CULTURA & VISIONI

La legge DEL MARE

IL SORRISO DEI RIBELLI DEL GOLFO
ARCHIBUGI DANIELE, CHIARUGI MARINA,

Anche il telespettatore meno smaliziato avrà oramai compreso quanto la pirateria somala abbia poco a che spartire con le suggestive gesta dei vari John Rackham ed Edward Teach, né con le prodezze dei molti pirati che popolano cinema e letteratura. L'arrivo a New York di Abdiwali Abdiquadir Muse, l'unico sopravvissuto al tentativo di sequestro della nave americana Maersk Alabama, ha spiazzato chi si aspettava di vedere arrivare un incallito delinquente: si tratta, infatti, di un ragazzino di sedici anni che ha esibito un disarmante sorriso ai fotografi bramosi di riprendere il volto di un feroce bucaniere. Forse era sorridente perché non è stato freddato dai cecchini come i suoi tre compagni di brigantaggio, oppure perché consapevole che la vita da prigioniero nello stato di New York non è peggiore di quella a piede libero nel suo paese.
I pirati del golfo di Aden vengono, infatti, da una terra divorata dalla siccità, dalle ripetute carestie e da una guerra civile che in vent'anni, tra morti e rifugiati, ha provocato più di un milione e mezzo di vittime. In quella terra non c'è che l'ombra di un apparato statale e, dal 1991, nessuno si preoccupa di garantire la funzionalità di porti e infrastrutture, nessuno controlla che le risorse ittiche non siano depredate dai pescherecci stranieri, nessuno impedisce che il mare territoriale non venga trasformato in un'enorme pattumiera a basso prezzo per chi intende liberarsi di rifiuti tossici e radioattivi.
Briciole di ricchezza
I pirati non sono certo, come pretendono di essere, i sostituti della guardia costiera, tuttavia la popolazione li percepisce, se non come liberatori, come gli unici capaci di riportare a riva almeno un po' della ricchezza che transita al largo del loro mare. Tutti gli altri sono invece percepiti come saccheggiatori delle risorse ittiche, inquinatori o come soggetti disinteressati a contribuire effettivamente alla rinascita somala. Né si può dar ai somali del tutto torto, se si pensa che la regione sia tornata alla ribalta della cronaca mondiale non per le carestie e la perpetua guerra civile, ma per i problemi che i pirati creano alle rotte internazionali. Infatti, la cosiddetta comunità internazionale ha manifestato un certo attivismo solo nel reprimere il fenomeno piratesco. Decine di navi da guerra pattugliano oggi il golfo di Aden, molti attacchi sono stati sventati, alcuni pirati sono stati catturati e spediti nelle poco confortevoli prigioni kenyote, altri sono stati freddati da cecchini dotati di armi ad alta tecnologia.
Non serve certo tessere l'elogio del pirata. La pirateria non aiuta a risolvere i problemi somali e ripristinare la libertà dei traffici nel golfo di Aden è nell'interesse di tutti. Le conseguenze economiche dei sequestri delle navi, che si riflettono principalmente sul commercio di petrolio e di manufatti provenienti dall'Asia, provocano danni tanto alle economie dei paesi sviluppati che a quelle dei paesi emergenti. Ma bisogna almeno apprezzare la vera natura della pirateria somala, che la differenzia da quella praticata in altri mari. Nello stretto di Malacca e nel golfo di Guinea, ad esempio, i pirati ogni anno compiono decine di attacchi volti a depredare e addirittura ad uccidere, per poi scappare con la refurtiva disponibile.
Interventismo marino
I pirati somali sono invece gli unici che puntano al sequestro delle navi e alla richiesta di un riscatto e sanno bene che l'omicidio di un solo ostaggio vanificherebbe le trattative. Se possono permettersi di sequestrare navi di enormi dimensioni è per l'assenza di una marina militare somala, che ha creato una sorta di zona d'ombra in cui i filibustieri possono agevolmente «parcheggiare» le navi sequestrate mentre attendono di riscuotere il riscatto. Ai sensi della Convenzione sul diritto del mare, che riproduce in larga parte norme di diritto consuetudinario e che pertanto vincola tutte le nazioni, ogni stato può inseguire una nave sospetta di pirateria per effettuare le ispezioni del caso, ma soltanto fino al limite del mare territoriale di un altro stato, ossia fino a 12 miglia marine dalla sua costa. L'area interna a tale linea immaginaria appartiene al territorio dello stato costiero, è soggetta alle sue leggi e soltanto questo può effettuarvi operazioni militari.
Il Consiglio di Sicurezza dell'Onu ha mostrato un notevole attivismo approvando nel 2008 una raffica di risoluzioni. Con lo scontato assenso del traballante Governo Federale di Transizione, il Considiglio di Sicurezza ha prima accordato l'autorizzazione a proseguire l'inseguimento delle navi nel mare territoriale e successivamente si è spinto fino a consentire l'accesso al territorio somalo per procedere all'arresto dei pirati. E, insieme all'autorizzazione delle Nazioni Unite, sono aumentate le navi spedite nel Golfo: gli Stati Uniti comandano una forza multilaterale composta da una ventina di stati mentre l'Unione Europea ha addirittura costituito la prima forza militare congiunta della sua storia. Ad esse vanno ad aggiungersi le fregate delle marine di vari stati orientali, seriamente preoccupati dalla sicurezza delle proprie esportazioni. Ma la vastità del Golfo di Aden e lo scarso coordinamento tra Marine militari ha reso finora estremamente complesso il pattugliamento di una superficie di quasi due milioni di chilometri quadrati.
Uno degli aspetti più sorprendenti è quanto gli stati si sono trovati impreparati nel decidere che cosa fare dei pirati catturati. Il diritto internazionale non solleva particolari problemi interpretativi: ogni stato che fermi una nave pirata in alto mare ha la facoltà di processare l'equipaggio presso i propri tribunali. Tuttavia, nessuno stato ha inteso assumersi l'onere di amministrare la giustizia, con la sola eccezione di Stati Uniti e Francia, che hanno portato a casa, per altro, solamente i pirati che avevano rapiti propri cittadini.
È da mesi e mesi che costosissime navi da guerra perlustrato il Golfo in lungo e in largo e quando finalmente riescono a catturare una imbarcazione pirata e ad arrestare il suo equipaggio, li lasciano spesso andare o addirittura li riaccompagnano a riva. Il Regno Unito si è tolto dall'imbarazzo concludendo un accordo col Kenya per deferire ai tribunali di Nairobi il compito di fare giustizia ed è stata seguito a ruota da Stati Uniti e Unione Europea. La soluzione è ingegnosa, ma contraddittoria: stati di comprovata tradizione democratica hanno rimesso la giurisdizione a un paese che loro stessi hanno più volte denunciato per serie violazioni dei diritti umani. Il sistema giudiziario keniota è un coacervo di inefficienze e quello penitenziario si distingue per il drammatico sovraffollamento, la diffusione delle malattie e i trattamenti inumani e degradanti cui sono costantemente sottoposti i detenuti. Gli stati europei hanno stipulato alcuni accordi per garantire un certo livello di tutela ai pirati trasferiti, abbreviandone i tempi di attesa e evitando l'ipotesi di incorrere nella pena di morte, ma nessun trattato potrà cambiare le condizioni delle prigioni keniote.
Disastri umanitari
Quali le alternative? La prima è incaricare gli stati che hanno provveduto alla cattura di farsi carico del processo e della detenzione (come stanno facendo gli Usa con Abdiwali Abdiquadir Muse). La seconda è istituire un ulteriore tribunale ad hoc. La terza e forse più opportuna potrebbe essere attribuire la giurisdizione a uno stato il cui sistema giudiziario offra le garanzie necessarie ad escludere la possibilità di abusi sugli indiziati.
Il problema più importante resta la crisi umanitaria somala, che rappresenta il terreno più che fertile in cui il fenomeno piratesco rafforza le sue già robuste radici. Esiste una diffusa consapevolezza, almeno sulla carta, dell'urgenza di agire sulla patologia piuttosto che sui sintomi. Per tornare ad avere il controllo del paese si impone un impegno massiccio diretto a incidere sulla realtà quotidiana e le condizioni di vita in Somalia. Ma, per ora, la comunità internazionale sembra soprattutto interessata a creare le condizioni di sicurezza necessarie a tutelare i propri scambi commerciali.
Il 23 aprile si è tenuta a Bruxelles una conferenza internazionale sulla situazione somala dove sono stati stanziati 200 milioni di dollari da destinarsi alla ricostruzione di una forza di polizia nazionale, già nota per gli abusi sulla popolazione, e alla missione di peacekeeping dell'Unione africana. Ma non è soltanto rafforzando le strutture repressive che si può pensare di togliere ossigeno ai novelli bucanieri. Un approccio così miope sta già inasprendo gli animi e sta rendendo sempre più consistente il rischio che si realizzi la convergenza tra i pirati appoggiati dai secessionisti del nord e i gruppi più estremisti delle milizie islamiche del sud, giungendo a concretizzare la tanto temuta alleanza tra pirateria e terrorismo.

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