POLITICA & SOCIETÀ

A rovinare i big dell'auto è stato il welfare privato

L'ANALISI
TONELLO FABRIZIO,

La storia dei sindacati americani, e quella della Chrysler, sarebbe stata molto diversa se il leader della United Automobile Workers (i metalmeccanici dell'auto) non fosse stato Walter Reuther e se, nel 1947, non ci fosse stata la guerra fredda. Per quanto strano possa sembrare, la situazione odierna, con la Chrysler che chiede l'amministrazione controllata e i fondi pensione che diventano proprietari del 55% dell'azienda, ha le sue radici non nella crisi mondiale dei produttori di auto, né nell'incapacità dei suoi manager o nelle preferenze dei consumatori americani: la bancarotta attuale è il frutto di una serie di contratti firmati a partire dal 1950 e della mancanza di un sistema di welfare pubblico negli Stati Uniti. Il Chapter 11 di Detroit è il frutto dell'impossibilità, per il settore privato, di sostituirsi allo stato nel garantire pensione e assistenza sanitaria agli anziani.
Facciamo un salto indietro a 60 anni fa: Walter Reuther era figlio di immigrati socialisti di origine tedesca e considerava un diritto dei lavoratori avere una pensione e l'assistenza sanitaria. Malgrado la creazione della Social Security da parte dell'amministrazione Roosevelt, le pensioni americane restavano assai magre e lontane dal garantire una vecchiaia decente: per questo, nel 1949, lanciò la campagna contro la Ford con l'obiettivo di ottenere piani pensionistici finanziati dall'industria. Nel boom postbellico delle vendite d'auto i tre grandi produttori volevano ad ogni costo evitare scioperi che avrebbero favorito i concorrenti e la Ford capitolò, accettando di garantire ai suoi operai che raggiungevano i 60 anni una pensione di 100 dollari, meno ciò che ricevevano dalla Social Security.
Reuther vedeva in questo accordo la possibilità di un'alleanza con gli industriali dell'auto per ampliare il sistema pensionistico pubblico (in questo modo le aziende avrebbero pagato di meno, o niente del tutto) ma la guerra di Corea e la miopia politica dei grandi produttori fece andare le cose in altro modo: né l'assistenza sanitaria pubblica né le pensioni di vecchiaia divennero simili al modello europeo. Al contrario, le aziende continuarono a negoziare salari e fringe benefits con il sindacato, scegliendo (di nuovo per completa miopia) di allentare i cordoni della borsa più facilmente sul fronte dei benefici che su quello della paga oraria.
La ragione stava nel fatto che i salari escono ogni fine mese, mentre i costi dell'assistenza sanitaria sono incerti e quelli delle pensioni molto rinviati nel tempo. General Motors, Ford e Chrysler scelsero un atteggiamento «dopo di me il diluvio», pensando che i profitti e i dividendi erano valutati dagli azionisti a fine anno, mentre ciò che sarebbe accaduto 20 o 30 anni dopo era un problema, tutto sommato, delle generazioni future.
Reuther era molto più previdente dei suoi interlocutori al tavolo della trattativa e, nel 1950, colpì con un sciopero di 100 giorni la Chrysler (già allora il più debole delle Big Three) per ottenere non solo le pensioni, ma il finanziamento dei piani pensionistici, cioè l'accantonamento immediato da parte dell'azienda delle somme necessarie per soddisfare i suoi futuri obblighi. La Chrysler, fosse per incapacità di capire il significato di ciò che firmava o per ansia di veder riprendere la produzione, si arrese. Poco dopo, il suo esempio sarebbe stato seguito dalla Gm.
Per tutti gli anni Cinquanta e Sessanta, i contratti a Detroit avrebbero seguito lo stesso schema: aumenti salariali modesti (perché considerati inflazionistici) e invece, una relativa generosità degli imprenditori quando si negoziava sui benefici collaterali, in particolare le pensioni.
Il problema stava nella struttura demografica della popolazione: l'America del 1950 era un paese giovane, dove solo il 7% dei cittadini avevano più di 65 anni. Oggi questa percentuale è quasi raddoppiata (12,6%). Si vive più a lungo, si va in pensione con la speranza di vivere altri 20 o 30 anni (la UAW ottenne il diritto per gli operai di lasciare il lavoro dopo 30 anni in fabbrica, il che significava, se avevano iniziato molto giovani, andare in pensione attorno ai 50 anni di età). Se al momento in cui Chrysler firmò il fatale contratto del 1950 solo il 20% degli operai aveva più di 50 anni, col passare dei decenni il numero di pensionati a carico dell'azienda doveva forzatamente crescere in maniera esponenziale, come mostrò all'inizio degli anni Ottanta il numero due dell'azienda, Gerald Greenwald, rivelando agli stupefatti membri del consiglio d'amministrazione che il principale fornitore della Chrysler non erano le acciaierie, né i produttori di pneumatici ma le assicurazioni Blue Cross che fornivano la copertura sanitaria. Pochi anni dopo, del resto, si parlò per la prima volta di accordo con la Fiat e Gianni Agnelli, in un incontro con Lee Iacocca, spiegò che l'alleanza non si poteva fare a causa delle potenziali perdite a cui la Chrysler era esposta.
Pensioni e copertura sanitaria finanziate dalle aziende sono semplicemente impossibili perché si tratta di obblighi a lungo termine che solo strutture destinate a durare, come gli stati, possono assicurare. Nessuna azienda può calcolare con ragionevole esattezza quanto costerà garantire le cure mediche 40 anni più tardi, né quanti anni un pensionato di 60 anni in buona salute può vivere. La «soluzione» americana è stata di restringere sempre più il numero di aziende che offrono questi fringe benefits ai dipendenti, facendo esplodere la percentuale di cittadini che non possono pagarsi un medico e devono continuare a lavorare dopo i 70 anni perché non ce la farebbero con il solo assegno della Social Security. Questo in Europa si è capito da 150 anni e il fatto che oggi sia la Fiat a salvare la Chrysler, e non viceversa, è anche la dimostrazione di come il welfare sia una necessità produttiva, ancor prima che un'elementare manifestazione di minima giustizia sociale.

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