CULTURA & VISIONI

Paul Auster A TU PER TU CON IL CASO

I MIEI PERSONAGGI PLASMATI DALLA PERDITA
ALBERTAZZI SILVIA,

«Lei mi fa proprio delle strane domande», mi dice Paul Auster, ridendo, mentre fuma il suo cigarillo. Lo spirito di Auggie Wren, il tabaccaio di Brooklyn protagonista di Smoke, aleggia nella stanza d'albergo a Pordenone. Siamo nella cornice di «Dedica», il festival che ogni anno la cittadina friulana consacra a un personaggio della cultura nazionale o internazionale: una quindicina di giorni in cui si sviscera l'opera di un autore attraverso dibattiti, incontri col pubblico, rassegne cinematografiche, allestimenti teatrali, progetti musicali ispirati alla sua opera, mostre fotografiche e, nel caso di Auster, anche una personale dedicata al fumetto di Karasik (anche lui presente a Pordenone) e Mazzucchelli, tratto dal suo romanzo Città di vetro. Uno sforzo notevole che fa di Dedica, a quindici anni dalla sua nascita, uno dei più originale festival culturali italiani, contraddistinto dal suo carattere monografico.
Auster è affabile, rilassato, sembra compiaciuto dal fatto di essere chiamato a rispondere solo sul suo lavoro di scrittore, mentre in mattinata, alla conferenza stampa, era stato indotto a parlare quasi esclusivamente di politica, tanto che si è suggerito di pubblicare le sue parole nelle pagine degli esteri, piuttosto in quella della cultura. Più tardi, durante l'incontro con il pubblico nel teatro comunale, si è poi parlato di cinema, anche troppo, tanto che Paul Auster, definendosi «un romanziere non cinematografico», è stato costretto a ricordare come coloro che gremivano la sala avevano fatto la fila per ore nel vento gelido del nord est non per parlare dei suoi film ma dei suoi romanzi. Ed è dal rapporto con la narrazione che prende le mosse l'incontro con questo scrittore che si proclama «affetto dalla malattia di scrivere», un mestiere che - come dice - non si sceglie, ma si coltiva per soddisfare un bisogno appassionato.
È appena uscita in italiano la sceneggiatura del suo film «La vita interiore di Martin Frost», proiettato in anteprima nazionale qui a Pordenone. All'inizio del film compaiono foto della sua famiglia, e i padroni della casa in cui Martin si rifugia a scrivere si chiamano Rastau, che è l'anagramma del suo cognome, Auster. L'apparire in prima persona è un espediente che lei ha già usato nei suoi romanzi, e probabilmente è un indicatore del suo interesse per il funzionamento della narrazione. Per esempio, «Città di vetro», il primo romanzo della «Trilogia di New York», parte da un gioco di malintesi tra personaggi, uno dei quali si chiama Paul Auster...
Sì, sono incuriosito dai meccanismi della narrativa, ma lo sono solo per ciò che riguarda gli scopi della finzione. Non mi interessa la teoria letteraria, non ho mai pensato di scrivere per tradurre in forma narrativa qualche teoria. Per quanto riguarda Città di vetro, ho descritto nel mio Taccuino rosso come è nato il romanzo. Alla base c'è un'esperienza personale: ho davvero ricevuto telefonate di qualcuno che aveva sbagliato numero e cercava l'agenzia investigativa Pinkerton. Mi divertiva molto l'idea che si continuasse a scambiarmi per un'agenzia di detective. Da questo dettaglio mi è venuta la spinta per dare avvio al romanzo: ero affascinato dall'idea di ritrovarmi a essere un investigatore per caso. E poi è entrata in ballo un'altra questione. In ogni libro, il nome dell'autore sta sulla copertina, poi si apre il libro e ci si imbatte nella voce narrante: naturalmente è l'autore che la fa parlare. Allora, perché non togliere il nome dell'autore dalla copertina e metterlo direttamente nel libro? Ero curioso di vedere se la cosa potesse funzionare.
Quando lei scrive è più interessato alla storia da raccontare o al modo in cui raccontarla?
Sono interessato a entrambi gli aspetti. Però non va mai dimenticato che ogni romanzo nasce da una storia, alla quale chi scrive darà poi una forma. Un romanzo non è un sonetto, non deve sottomettersi a una forma pre-esistente. Così, anch'io trovo la forma che più mi conviene man mano che porto a maturazione la storia.
I suoi romanzi fanno pensare che lei sia molto interessato alla cosiddetta metanarrativa, ovvero, alla riflessione sull'atto della scrittura.
Sì, è vero, ma non ne sono ossessionato, almeno non tanto quanto lo sono altri scrittori che hanno davvero spinto molto oltre la loro riflessione in questo campo. Ci tengo ad ancorare quel che scrivo al reale, anche se al tempo stesso sono profondamente conscio del libro come artefatto. Insomma, ciò che alla fin fine conta è chi ha ammazzato chi. Chiunque comperi un libro, del resto, sa che è fatto di storie inventate da qualcuno, e che è soltanto un oggetto tra le sue mani: perché voler dimostrare il contrario? Non c'è niente da fare: ciò che conta sono solo e soltanto i contenuti emotivi delle storie, e io affido loro la possibilità di creare una sorta di intimità, un legame con chi legge. Davvero, è tutta una questione di emozioni.
Lei è chiaramente sensibile ai problemi della narratologia, parla infatti del libro come di un artefatto. Ma poi mette al centro della «Vita interiore di Martin Frost» la figura di una musa, come se facesse un certo investimento sull'ispirazione. È così o la sua musa è piuttosto una figura ironica?
Nel film la musa è tutt'uno con la storia che lo scrittore sta scrivendo, la quale a sua volta è soprattutto una storia d'amore. Martin distrugge la sua storia per riportare in vita la musa, mentre io penso che se si tiene al proprio lavoro la si deve lasciare morire, perché lei é la storia! Ma lo sa che le sue domande sono veramente strane, anzi più che strane difficili? Comunque, continui pure così.
Nella «Trilogia» lei scrive che il protagonista, uno scrittore, non è tanto interessato alla relazione delle sue storie con il reale, quanto alla relazione che stabilisce con altre storie già scritte. Non c'è contraddizione con quanto ha detto finora?
No, perché il protagonista di quel romanzo è uno scrittore di genere, scrive polizieschi, quindi conosce tutte le convenzioni della narrativa gialla, e ciò che deve fare è appunto adattarvi il proprio lavoro. Inoltre, quello è un pensiero che riflette lo stato mentale di Quinn, il protagonista di Città di vetro, un uomo solo, che avrebbe voluto essere un poeta; per la verità è un poeta, ma avendo perso tutto ciò che aveva è costretto a scrivere gialli per mestiere, sentendosi molto lontano dal suo lavoro. Per quanto mi riguarda, proprio non credo che le storie non debbano mantenere un legame con la realtà di quanto ci succede intorno.
Quello che dice mi fa venire in mente un'altra caratteristica dei suoi romanzi: quasi sempre il protagonista è un uomo che ha perso tutto - famiglia, affetti, relazioni sociali. Come mai?
È vero, ci sono molte tragedie alla base dei miei romanzi ... cercherò di limitarle, per il futuro. Ma il fatto è che perdiamo continuamente persone e cose a cui teniamo, sono le prove più difficili che ci tocca affrontare. Credo che mettere qualcuno di fronte a una grave perdita sia il modo migliore per capire di che pasta è fatto. Così, mi viene istintivo, quando penso a un personaggio, domandarmi come potrebbe andare avanti dopo un grave lutto.
Ci sono anche molti fantasmi, spiriti, sparizioni nei suoi libri.
Credo di essere ossessionato dai fantasmi, di esserne circondato. Si arriva a un punto nella vita in cui ci rende conto che tante, troppe persone care o persone con cui si sono avuti rapporti se ne sono andate, e allora ci trova ad essere coinvolti con i morti almeno quanto lo si è con i vivi.
Il fatto che lei, a volte, metta delle fotografie nei suoi libri è dunque interpretabile come un modo di conservare almeno qualche traccia di chi ci ha lasciato?
Sì, a volte ho usato una piccola immagine in bianco e nero o un cartoncino a colori. Di solito sono le foto di famiglia a essere importanti, a costituire una traccia. Ed è interessante il fatto che queste immagini sono coinvolgenti solo per noi, agli altri non dicono niente, tanto che se gliele mostriamo si annoiano.
Nell'«Invenzione della solitudine» lei parla di una foto di famiglia manomessa. Anche nell'ultimo lavoro di Julian Barnes, «Nothing to be Frightened of», si menziona una foto di famiglia danneggiata, da cui è stato cancellato il volto del soggetto...
Che coincidenza, ho quel libro con me nella borsa da viaggio. Lo leggevo in aereo venendo in Italia.
Il fatto che lei stia leggendo proprio quel libro sembra una di quelle coincidenze di cui sono pieni i suoi romanzi. Lei crede ancora, come scrive all'inizio di «Città di vetro», che niente è reale tranne il caso?
Be' quella è una frase un po' estremista. Vedo il caso come un elemento che gioca in quella che chiamo la meccanica del reale; ma della stessa macchina fanno parte altri ingranaggi, le scelte che facciamo, i piani che stabiliamo, il modo in cui prendiamo decisioni e poi cerchiamo di metterle in pratica, le nostre reazioni di fronte all'intervento di fattori imprevisti, di incidenti. È questo che chiamo caso. In inglese accident sta a significare sia «tutto quello che non è necessario», sia «atto contingente, fisico, incidente». Per quanto riguarda la mia scrittura, ho cercato di sviluppare il modo in cui la casualità entra nella vita reale in un progetto che ho chiamato True Stories of American Life. Era un progetto nazionale di carattere narrativo, al quale ho lavorato dieci anni fa alla radio, partendo dalla curiosità di sapere se anche nelle vite altrui accadano tante coincidenze come nella mia. E sì, ho scoperto che sì, è così per tutti. Le racconto un episodio, a questo proposito, al quale non so ancora dare un senso: nel 1997 ero nella giura del festival di Cannes, alla sua cinquantesima edizione. Decisero di scattare una fotografia in cui venissero ritratti i centoventi vincitori di premi assegnati nel corso degli anni passati insieme alla giuria di quell'anno. C'erano tutti i più famosi registi e attori, proprio tutti. Ma qualcuno mi presentò alla persona che meno avrei desiderato conoscere, Charlton Heston. Non l'ho mai considerato un grande attore e per di più detestavo le sue idee politiche. Una settimana dopo ero di ritorno in America, a Chicago, all'American Book Fair, una fiera enorme con migliaia di stand: appena arrivato avevo una grande urgenza di andare in bagno, che era più o meno a due miglia dall'entrata, così cominciai a correre e mentre correvo incontrai nello stand della American Rifle Association proprio Charlton Heston, intento a firnare i suoi libri. Non mi fermai, feci finta di niente. Questo accadeva il sabato. La domenica lasciai Chicago; il lunedì a New York dovevo incontrare Juliette Binoche, che avevo contattato per il ruolo della protagonista in Lulu on the bridge. Dovevo vederla in un piccolo hotel fuori mano. Quando arrivai non c'era nessuno, la hall era deserta, nessuno alla reception. Mentre riflettevo sul da farsi, la porta dell'ascensore si aprì e ne uscì Charlton Heston! Per la terza volta in tre giorni, in tre luoghi lontanissimi, incontravo quest'uomo che non avevo mai visto prima. Perché proprio lui? Sono questi i casi che mi interessano.

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