Ogni volta che Genova appare nelle cronache, lo fa suo malgrado. Come se bisbigliare al di là dei carruggi, fosse una sorta di lesa maestà al passato della città. Meglio il tiepido rimbombo del dialetto imbastardito dai tanti migranti, a cullare i propri sogni. E Diego Milito, delantero argentino, attuale capocannoniere del campionato con 9 gol, ha la faccia cruda da marinaio consumato: freddo e determinato, malinconico e maturato dall'esperienza di tanti tanghi.
E come i genovesi non ama raccontarsi. Del resto, dici Genova e dici Argentina: la Boca, i xeneixes, volti, storie, magie. Milito, El Principe, è uno degli argentini che si appresta a diventare storia del club rossoblù. E i suoi connazionali con un passato genoano, raramente sono passati inosservati. Nel 1949 il Genoa ingaggia dal Boca Juniors, Mario Emilio Heriberto Boyè. In Argentina ancora oggi è considerato una delle più grandi ali destre della storia: lo chiamavano El Atomico. La curva del Boca gli aveva dedicato una canzone ad hoc: «yo te daré, te daré niña hermosa, te daré una cosa, una cosa que empieza con B...Boye». Mica male. Boyè arrivò a Genova, giocò una manciata di partite, fece quattro gol contro la Triestina, sbagliò un rigore nel derby e poi tornò in Argentina. Pare non apprezzasse i ritiri: la moglie pareva gustarseli molto di più. All'Atomico la situazione sembrò irreparabile: valigia, aereo e via a Baires lontano dai ritiri all'italiana. Boyè rimane un mito lontano e un po' sfortunato: un grande calciatore che non ebbe l'occasione di trascinare i rossoblù a grandi vette. Passato remoto.
Situazione diversa oggi, con Milito ad affondare difese e mantenere alta l'aura di un Ferraris inviolabile. E' arrivato a Genova, è tornato anzi, dopo una stagione e mezza di gol e classe, dopo un distacco di tre anni sofferto da tutti. Era andato via perché in C, non avrebbe avuto senso la sua presenza. Era andato via da Genova per andare a Saragozza, per giocare con il fratello Gabriel (ora al Barcellona) e sperimentarsi nella Liga. Sembrava un addio, perché di favole a Genova da un po' non se ne vivono. Poi, quest'estate, a campionato già iniziato è tornato. Senza starla troppo a menare con le consuete frasi fatte. «Sono contento», ha detto in conferenza stampa. E dire che avrebbe potuto ricamare sulla sua insistenza a tornare a Genova, anziché andare a prendere le sterline del Tottenham. Ha scelto Genova, chiamiamolo pure debito, roba da adulti.
Quando il Genoa anziché portarlo in serie A (dove avrebbe dovuto fare coppia con un certo Lavezzi), lo lasciò al Saragozza nella tribolata estate della retrocessione in C, nessuno ci avrebbe creduto. La Nord, stropicciandosi gli occhi, lo ha accolto ancora, conoscendone la finezza tecnica e la modestia umana. E il numero di gol in rossoblù in campionato: 42 in 69 partite. E ora tutti si accorgono di Milito, attaccante, non un prodotto di marketing. E' un calciatore. Parla poco, si fa i fatti suoi e alla domenica la mette dentro in ogni modo: nell'ultimo turno di campionato ha fatto gol col destro, di testa, con il sinistro in acrobazia e ha fornito a Sculli una palla che conteneva un messaggio: devi solo spingerla in rete. Repertorio da bomber, senza troppi fronzoli e isterismi. Non si trova il suo sorriso patinato sulle riviste, né si atteggia a maître à penser de noialtri (la casa, la chiesa, la famiglia, Cristo). Il suo colpo migliore è la finta più classica, la prima che viene insegnata alle scuole calcio, o forse la più naturale: fingere di andare sull'esterno o calciare e rientrare con l'interno, a nascondere pallone e pensieri. Milito non ha un colpo da playstation, non è un giocatore da Youtube, da rabone, sombrero, trivele e belinate simili, direbbero i genovesi. E allora quando la stampa nazionale si accorge del campione Milito, ai genovesi fa piacere, ma un po' infastidisce, come se qualcuno osasse turbare un idillio riservato.
Lo chiamano El Principe perché come un altro Principe, l'uruguagio Enzo Francescoli, ha l'eleganza del cigno sudamericano: flemmatico e letale. Non solo: i due si assomigliano proprio. Ora a Genova si parla addirittura di Maradona: il neo ct argentino non ha convocato il Principe, preferendogli il genero Aguero e il napoletano Denis. E giù a brontolare, ben sapendo che forse è meglio così. Lui ha pensato la stessa cosa: «mi spiace ma almeno potrò dedicarmi al Genoa». E lo staff rossoblù lo sta spremendo come un limone. L'ultima convocazione in nazionale lo aveva riportato in Italia a poche ore dal match con l'Inter a San Siro. Ha dormito qualche ora, è andato da Gasperini, mister genoano, e gli ha detto: io gioco. E ha corso come un matto, mentre gli interisti cercavano di scardinare l'ordine genoano retto da quello là davanti, serpente a sonagli nelle praterie meneghine.
Nel suo primo anno al Saragozza, quando incontrò il Real Madrid, gli fece 4 gol per un 6-1 finale che puzza di storia. Il primo di destro, dopo un controllo al volo nell'area piccola. Il secondo, finta a rientrare e colpo d'esterno a superare Casilla. Il terzo e il quarto di testa. Tutto questo non è abbastanza per il calcio moderno, alla ricerca di brand, marche, stereotipi, ma è sufficiente per fare sognare una città. E quel che conta è che è tutto vero.