Sono passati solo quattro anni dalla notte di novembre 2004 quando non solo George W. Bush fu rieletto ma i repubblicani conquistarono 4 seggi in più al Senato, portando la loro maggioranza a 55 senatori. Sembra passato un secolo. Mercoledì mattina, gli americani si sono svegliati con un presidente afroamericano, 56 senatori su 100 e 254 deputati democratici (81 più dei repubblicani). Barack Obama ha ottenuto una percentuale di voti maggiore di quella di ogni altro candidato democratico dal 1940 in poi, con l'eccezione di Lyndon Johnson nel 1964 (Franklin Roosevelt nel 1944 ottenne lo stesso risultato: 53,4%). Difficile immaginare un ripudio più completo di otto anni di amministrazione Bush.
Lo choc dei risultati elettorali è stato sufficiente per aprire una guerra per bande all'interno del movimento conservatore e del partito repubblicano, che sembra sull'orlo della disintegrazione. Da una parte stanno i repubblicani moderati (o opportunisti, se si vuole) che sono scesi in tempo dal Titanic e hanno annunciato che avrebbero votato per Obama: fra loro Colin Powell, l'ex segretario di Stato di Bush, Kenneth Adelman, un ex sottosegretario con Reagan e Ken Duberstein, ex capo di gabinetto di Ronald Reagan. Poi ci sono i cosiddetti repubblicani moderati, come le senatrici Olympia Snowe e Susan Collins (rieletta martedì) o l'ex governatore del New Jersey Christine Whitman e il candidato alla nomination Mitt Romney. Marginalizzati nel partito dall'ala pura e dura negli anni scorsi, è difficile dire se ritroveranno la voce.
Dall'altra, stanno i seguaci di Newt Gingrich e Tom DeLay, i protagonisti della «rivoluzione conservatrice» degli anni '90, che conquistarono la maggioranza alla Camera nel 1994 e hanno il sostegno di giornali come lo Weekly Standard e della pagina degli editoriali del Wall Street Journal. Il loro slogan è «Combattere fino all'ultimo uomo» e hanno già lanciato una campagna preventiva contro Obama sul tema delle tasse e del debito pubblico (fingendo di non sapere che il loro presidente, George W. Bush, lo ha triplicato dal 2001 a oggi).
Sulla stessa linea ci sono le lobby più importanti che negli anni scorsi hanno sostenuto i repubblicani, la National Rifle Association, cioè i possessori di armi da fuoco, e le varie organizzazioni anti-tasse, come il Club for Growth, Americans for Tax Reform e altre. Tutti costoro sono convinti che un'opposizione intransigente, e la delusione che seguirà alle aspettative eccessive create da Obama, porterà una prima rivincita già alle elezioni per il Congresso del 2010, aprendo la strada alla candidatura alla presidenza di un «vero conservatore» nel 2012. Il candidato c'è già: Sarah Palin, idolo della base sudista e rurale del partito, quella personificata dalla macchietta di «Joe l'idraulico» comparsa negli ultimi giorni di campagna elettorale.
Il problema di questa strategia è che le elezioni sono state perse esattamente perché la campagna del 2008 è stata più quella di Sarah Palin che quella di John McCain (che non la voleva neppure come vicepresidente). Gli attacchi virulenti contro Obama, le accuse di essere «amico di terroristi» e antiamericano, erano distanti anni luce dai veri sentimenti di John McCain, che ha pronunciato il miglior discorso della stagione martedì notte, quando ha detto che Obama si è meritato «il mio rispetto per la sua capacità e la sua perseveranza». Mentre i sostenitori riuniti a Phoenix quasi non credevano alle proprie orecchie, McCain ha aggiunto: «Il fatto che sia riuscito a vincere suscitando le speranze di così tanti milioni di americani che credevano erroneamente di contare poco nell'elezione di un presidente americano è qualcosa che ammiro profondamente e mi complimento con lui».
John McCain tornerà in Senato, detestato dai conservatori che non lo avevano mai amato, e sarà il principale ostacolo ai piani di ricostruire un partito su posizioni di estrema destra. Non a caso i suoi collaboratori si sono deliziati, ieri, nel raccontare ai media di come la Palin neppure sapesse che l'Africa è un continente, e non una nazione, e di come avesse rifiutato di prepararsi seriamente per l'intervista televisiva con Katie Couric, che ha rivelato al mondo la sua crassa ignoranza.
D'altra parte, un partito conservatore ma non estremista, di opposizione ma pronto a collaborare con Obama, nemico del debito pubblico ma pronto a riconoscere che oggi il problema è uscire dalla crisi, in questo momento non c'è. E se ci fosse sarebbe un partito condannato a restare in minoranza per molti anni, esattamente come i democratici quando iniziarono a essere «responsabili» nella loro opposizione a Reagan. Oggi, i ruoli si sono invertiti e i repubblicani temono un lungo e freddo inverno politico, come quello seguito alle elezioni del 1932.