CULTURA

Jeff Wall UN'IDEA DI REALTÀ

CIÒ CHE PENSA LA MACCHINA FOTOGRAFICA
DEL DRAGO ELENA,

Jeff Wall, tra i più influenti artisti del nostro tempo, è in mostra a Roma, con la sua seconda personale presso la Galleria Lorcan O' Neill. Canadese, classe 1946, ha cominciato, alla fine degli anni '60, a sperimentare le nuove possibilità della fotografia. Partecipe dell'esperienza concettuale, ma inventore di un linguaggio estremamente personale, Wall ha rivoluzionato l'idea del reportage classico: non era più tanto la realtà ad essere rappresentata nello stesso istante in cui si manifestava quanto i sentimenti provocati, che venivano ricreati in un secondo momento. Se i più celebri lavori di Wall, infatti, continuano ad essere gli scatti cosiddetti «Cinematografici», in cui l'artista mette in scena in studio un avvenimento osservato, oggi la sua ricerca non si affida più esclusivamente a questo metodo e tuttavia continua ad esplorare i sentimenti della vita moderna e delle relazioni tra individui, cercando di trovare una qualità media, accessibile al maggior numero di persone possibile. Lo abbiamo incontrato a poche ore dall'inaugurazione della mostra romana.
I suoi esordi sono stati segnati da una conoscenza della storia artistica e pittorica in particolare che, a quanto è stato scritto, ha ostacolato più che favorito, la scelta di un suo linguaggio personale. È così?
In realtà tanto la pittura quanto la fotografia facevano parte, sin dalla mia primissima infanzia, della mia dimensione familiare. Ricordo di aver sempre dipinto, disegnato e colorato moltissimo, mentre mio padre aveva una forte passione per la fotografia. Se penso a lui mi viene in mente una piccola macchina fotografica, come quella delle spie, di cui andava fierissimo: erano d'altronde i primi anni '50, quelli della guerra fredda. Ed è stato sempre mio padre a regalarmi un apparecchio fotografico molto costoso per i miei sedici anni, che non ho cominciato a utilizzare davvero fino a quando non ne ho compiuti venti.
A quel punto, però, si vivevano anni di grande sperimentazione attorno alla fotografia. Alla fine degli anni '60, infatti, si cominciò a guardare a questo mezzo espressivo da una prospettiva nuova. Quanto è stata importante questa atmosfera culturale nella scelta di lasciare la pittura per la fotografia?
È stata importantissima. Ho vissuto i miei vent'anni, ossia l'età in cui si è portati naturalmente a sperimentare, in un momento storico di grande apertura e vivacità, mentre diversi artisti mettevano profondamente in questione il linguaggio fotografico. Non so se questo fermento abbia portato la fotografia verso risultati estetici migliori di quelli che si ottenevano prima, ma comunque è stato un passaggio importante, anche per il mio lavoro, che poi ha preso direzioni completamente differenti.
Soprattutto le sue fotografie più note, in effetti, tramite un processo creativo e una riuscita estetica di tipo cinematografico, sembrano lontanissime dall'ortodossia concettuale di quegli anni...
Certamente, ma derivano dai problemi sollevati in quel periodo. Oggi, trenta anni più tardi, possiamo chiederci se la fotografia realizzata dopo gli anni '70 sia effettivamente migliore di quella scattata prima ed avere molti dubbi in merito, ma è un discorso diverso.
Il passaggio rivoluzionario del suo lavoro consiste nella scelta di non fotografare direttamente la scena osservata, ma di ricostruirla in un secondo momento. Come è arrivato a questa opzione?
Non saprei spiegarlo esattamente, ma di certo è stato fondamentale appartenere a una generazione che ha messo in questione il linguaggio classico della fotografia. Robert Frank o Walker Evans, ad esempio, possono essere considerati i migliori fotografi del mondo, ma da quel momento hanno smesso di rappresentare l'unico modo di intendere la fotografia. A proposito del modello che il loro lavoro incarna si tendeva a pensare: «è vero, ma non completo. Bisogna aggiungere qualcosa, ma cosa?» Credo di aver semplicemente provato ad aggiungere l'elemento mancante e nessuno mi ha fermato.
A proposito di questo passaggio e della realizzazione di lavori celeberrimi come «A Sudden Gust of Wind (After Hokusai)» quel che si nota è sempre quanto sia cruciale il ruolo della pittura. È d'accordo?
In effetti, molti critici hanno scritto che le mie fotografie derivano dalla storia della pittura: non è un giudizio del tutto errato, ma è certamente esagerato. Ogni fotografia cerca di trovare una soluzione al problema della costruzione delle immagini e forse, nel mio caso, c'è soltanto una maggiore consapevolezza della storia che mi ha preceduto. All'inizio del mio lavoro questo rapporto con la pittura era per me fondamentale, ma è un interesse durato circa cinque anni. Continuo comunque a credere che cinema, pittura e fotografia siano strettamente correlate e che nel processo creativo visivo debbano entrare in relazione tra loro.
Un'altra interpretazione del suo lavoro tende a considerare come molto importante il suo interesse sociale e il suo desiderio di rappresentare i conflitti che agiscono nella nostra società, lei concorda con questa lettura?
Credo che ogni fotografo importante torni sullo stesso soggetto, ossia il modo in cui i rapporti e la loro evoluzione appaiono in un determinato momento. In questo senso credo che il mio lavoro sia molto convenzionale, una sorta di reportage sociale classico realizzato con una tecnica diversa e basato sulla mia esperienza personale. Il fine non è tanto quello di fermare l'avvenimento, quanto quello di catturare i miei sentimenti a proposito di esso. Forse è il grande formato delle mie fotografie che ha portato ad esagerare il giudizio circa il loro impegno intrinseco, anche se è chiaro che non si può diventare fotografi senza avere interesse per quanto avviene nel mondo.
Le vorrei chiedere ora di raccontare perchè ha deciso di fotografare a Roma.
Non è stata una decisione bensì un incidente, che si è tradotto nelle due immagini esposte nella mostra: non potrei mai lavorare su Roma. C'è una grande differenza d'altronde tra Basin I, Basin II, le due immagini romane, e la fotografia che ho realizzato in Sicilia, decisamente poco casuale (Hillside). Lo scorso novembre, infatti, sono andato nell'isola con il preciso scopo di realizzare dei lavori perchè mi piace come appaiono le cose in quella terra: la qualità visiva è completamente differente, anche da quella continentale. Così ho scelto un paesaggio non lontano da Ragusa e ho realizzato una serie di scatti sui quali sto ancora lavorando.
Cosa rende Roma impossibile da fotografare?
L'immagine di Roma è troppo familiare per poterci lavorare, semmai decidessi di fotografare questa città uscirei dal centro e cercherei un luogo adatto in periferia.
Il suo soggetto privilegiato è stato per anni Vancouver, come mai l'ha scelta?
Quel che mi interessa è osservare come le cose che accadono a Vancouver, al contrario di quanto avviene a Roma, possano essere riferite a qualsiasi altro luogo del mondo, essendo una delle moltissime città che si è sviluppata secondo il tipico modello nordamericano.
Quindi quel che la interessa è cercare il minimo comune denominatore visivo di ogni luogo?
Ciò che più mi importa è creare la possibilità di una identificazione, far sì che quanto accade a una singola persona, all'autore in questo caso, possa essere compreso immediatamente da chiunque guardi la fotografia. Cerco di mantenere una certa semplicità nelle mie immagini, che di per sé sono difficili da comprendere, e misteriose se non accompagnate da una spiegazione. D'altronde apprezzo molto il fatto che la fotografia sia aperta alle più diverse interpretazioni.
Nella mostra alla Galleria Lorcan O'Neill è evidente l'assenza dell'uomo. A parte una mano femminile che comprare in uno scatto, sembra che il mondo sia improvvisamente privo di abitanti. È stata una scelta precisa o un caso?
Non credo che questa assenza rappresenti una mia nuova prospettiva lavorativa, perchè sto anche realizzando fotografie piene di persone. Credo sia piuttosto da attribuire alla casualità del momento: il confine tra la presenza e l'assenza di una persona in uno spazio è davvero molto labile. Ed è un aspetto della fotografia che mi interessa enormemente: agli inizi della mia carriera cercavo sempre la presenza di una persona, ma all'apparecchio fotografico non interessa questo elemento e con il passare del tempo si finisce per pensare come il proprio strumento di lavoro.
Probabilmente anche la particolarità dello spazio romano ha avuto una sua rilevanza...
Certamente, proprio come in un racconto o in un poema, ho scelto di lavorare a un insieme di opere che evocassero alcuni sentimenti legati all'assenza: tutte le opere esposte contengono un'idea di secchezza: ci sono pietre, ombre, ma non puoi vedere nessuno, c'è una porta ma è chiusa, la vita sembra evaporata da qualche parte, ma poi compare dell'acqua, che è una fonte di vita, ed infine appare una persona.
Come è cambiato il suo metodo di lavoro rispetto alla fotografia cinematografica, che richiedeva una produzione complessa?
Utilizzo la tecnologia digitale non per scattare l'immagine ma nella post produzione, quando è necessaria per ricreare le condizioni che mi interessano. In Hillside, ad esempio, non c'era bisogno di aggiungere nulla e dunque si tratta di un'immagine realizzata con metodo classico, stampata nella mia camera oscura. Spero sempre di potermi fermare a un solo scatto, ma non puoi mai sapere se ciò sarà possibile finchè non ti trovi dentro la situazione del momento.
Quindi non segue alcun metodo sistematico?
Cerco di non seguire un metodo perchè non voglio ritrovarmici incastrato. Non voglio neppure seguire un'idea troppo precisa, piuttosto preferisco risolvere i problemi che si presentano ogni giorno quando esco per lavorare.
Per concludere le vorrei chiedere se crede che le grandi possibilità tecniche oggi a disposizione abbiano effettivamente portato a una maggiore qualità estetica della fotografia.
Effettivamente, oggi si fa un grande lavoro attorno alla fotografia, anche se credo che quel momento straordinario in cui si comprese come la fotografia non andasse considerata un'arte minore sia ormai, e purtroppo, molto lontano.

Supporta il manifesto e l'informazione indipendente

Il manifesto, nato come rivista nel 1969, è sinonimo di testata libera, indipendente e tagliente.
Logo archivio storico del manifesto
L'archivio storico del manifesto è un progetto del manifesto pubblicato gratis su Internet e aperto a tutti.
Vai al manifesto.it