INTERNAZIONALE

«Il mondo ci guarda, pronto a usare il veto»

STATI UNITI ·
TONELLO FABRIZIO

Il piano di salvataggio delle banche che hanno nei loro bilanci milioni di mutui inesigibili potrebbe essere votato già mercoledì dalla Camera dei rappresentanti ma potrebbe anche non vedere mai la luce. Da un lato, l'amministrazione Bush chiede al Congresso di firmare un assegno in bianco da 700 miliardi di dollari e chiede per il Tesoro un'autorità illimitata nell'addossare al governo federale tutti i crediti che Wall Street non sa come recuperare. Dall'altra, i democratici, che hanno la maggioranza in Congresso, vorrebbero porre qualche condizione, per esempio limare i compensi stratosferici e le liquidazioni d'oro dei dirigenti che hanno portato le istituzioni finanziarie in bancarotta. In realtà, il gioco veramente importante si svolge dietro le quinte ,dove i lobbisti di Washington stanno cercando freneticamente di ottenere che il salvagente governativo comprenda non solo i mutui immobiliari ma ogni tipo di credito: alla festa a spese dei contribuenti possano partecipare non solo le banche ma anche le compagnie d'assicurazioni, le istituzioni parabancarie e i giganti delle carte di credito (un altro settore che fa sempre più fatica a recuperare i quattrini concessi con facilità negli anni scorsi). Gli appetiti sono giganteschi e l'amministrazione Bush (che ogni tanto ancora parla di "pareggio del bilancio") sembra convinta di poter spendere 1000 miliardi di dollari come se fossero noccioline. Anzi, ieri lo stesso presidente ha mandato un messaggio dal tono ultimativo al Congresso, dicendo di fare in fretta perché "tutto il mondo ci guarda" e minacciando velatamente di mettere il veto a una legge che approvasse il salvataggio ma solo a determinate condizioni. Addirittura, il Tesoro esige di poter intervenire "senza che i tribunali possano sindacare il suo operato", una bestemmia nel sistema costituzionale degli Stati Uniti. I democratici accetteranno lo scambio Cash for Trash, soldi in cambio di spazzatura? L'economista Paul Krugman ha spiegato ieri sul New York Times che il piano di Paulson non risolverebbe il problema centrale della crisi, che è la carenza di capitale da parte delle banche (a meno che i crediti che il governo compra non vengano supervalutati). Inoltre, aggiunge Krugman, non si capisce perché i cittadini americani dovrebbero finanziare aziende gestite fin qui in modo rovinoso senza aver nulla in cambio: durante la crisi delle casse di risparmio negli anni Ottanta (anch'essa provocata dalla speculazione favorita da amministrazioni repubblicane, naturalmente) il governo federale creò un'agenzia che recuperò la proprietà delle banche fallite, non semplicemente i crediti. Resta oscuro, inoltre, cosa potrebbe rianimare il mercato immobiliare e cosa potrebbe permettere alle famiglie in difficoltà di ricominciare a pagare le rate del mutuo: l'economia non va certo bene e lo spettro della strozzatura del credito è ben reale. L'idea di legare il piano a interventi per bloccare i pignoramenti e rinegoziare i termini dei mutui circola tra i democratici ma naturalmente Wall Street e i repubblicani sono ferocemente contrari. In Senato si discute di creare un'agenzia federale ad hoc per gestire il salvataggio ma sembra una soluzione tecnicamente troppo complessa per essere attuata in tempi brevi. In tutto questo, chi è silenzioso o quasi sono i due candidati alla presidenza, Barack Obama e John McCain, che vogliono soprattutto evitare di fare proposte che si ritorcano contro di loro. Entrambi hanno chiesto che i soldi dei contribuenti non vadano ad arricchire i manager responsabili del disastro ma nulla di più. Sia McCain che Obama preferiscono tenere le distanze dai rispettivi partiti in questo momento perché la situazione potrebbe degenerare in uno scontro frontale tra Casa Bianca e Congresso. Se Camera e Senato approvassero un testo molto diverso da quello proposto dal Tesoro, Bush potrebbe mettere il veto e la crisi finanziaria si riaprirebbe in modo assai più virulento della settimana scorsa. Questa possibilità ha fortemente innervosito la Borsa americana ieri mattina: al momento in cui scriviamo il Dow Jones, il Nasdaq e lo Standard and Poor's 500 perdevano circa il 2 percento. Il petrolio, in previsione di un indebolimento del dollaro, è cresciuto del 10% in un solo giorno, tornando sopra i 115 dollari al barile. Chi sembra avere le carte migliori in mano, per ora, è l'amministrazione Bush, che sta usando in modo assai spregiudicato la crisi per ottenere un'autorità illimitata da parte del Congresso. I democratici sono timorosi di vedersi rovesciare addosso la responsabilità di un nuovo crack a sole sei settimane dalle elezioni e quindi accetteranno probabilmente di capitolare a condizione di ottenere qualche emendamento che permetta loro di salvare la faccia. Dopo il 4 novembre, se ne riparlerà.

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