STORIE

Il cavallo GUERCIO DEL VETTURINO

italia underground
GALLO ERMANNO,

La sera svolgeva filastrocche di voli tesi come pugnali: centinaia di ali arabescavano il crepuscolo, mentre la luce sanguigna di agosto si sfaceva in ragnatele trasparenti. Allora, con il boccone ancora in gola - come gatti randagi che appena rifocillati già sentono il richiamo prepotente della strada e dell'avventura - correvamo al lavatoio. Non è cambiato molto da allora. I cornicioni smangiati dal tempo e dalla noia, i cani macilenti, l'afa delle lunghe ore ansimanti, l'alito cavernoso dei porticati... E lui, Toni. In carne ed ossa.
Consunto ma vivo. Biascica allo stesso posto, nella stessa posizione, il muso magro affondato nel secchiello di avena. Per guardare a sinistra gira completamente il collo raggrinzito. Ha un occhio solo. Toni: il cavallo guercio del vetturale. Anche lui, randagio e irrequieto, si tuffava nel buio per cercare parole diverse, per smarrirsi nella corsa, per infrangere l'ordine dei campi coltivati, o semplicemente per brucare in santa pace l'erba bagnata di rugiada. Amava la libertà, come noi.
Era una sera come tante altre, ricordi Toni? Restammo un po' sotto la tettoia del lavatoio, passandoci le sigarette di mano in mano, brontolando e ridacchiando sottovoce. Aspettavamo che qualcuno proponesse l'asso, la bravata di turno; ma le idee ristagnavano.
«Peccato che non è tempo di feste, sennò...». Aveva parlato Gino, il più esperto, il più bello.
«Conosco tre sorelle che non vi dico». Ridacchiò. «Pensate che una volta la più anziana, un tocco di figa così, continuava a schermirsi, diceva di no, stupida preziosa. Non c'era proprio verso... Ah sì, vedi allora cosa ti combino! La presi per mano e la portai all'albero nero. Vedi, sarà stato un fulmine, dicono, ma io non ci credo. È liscio e duro come marmo, no, questa è opera diabolica... Il primo brividino era venuto; le strinsi la mano, come per proteggerla. Guarda quei rami alti, non sembrano forche? E quei nodi larghi come bocche senza fondo... quale fulmine! Mi si era avvicinata e stringerla ben bene fu un giochetto. E poi...».
«Poi?» La nostra domanda era rauca, corale. Anche Toni immobile, pareva ascoltare.
«Poi, poi. Chi ha detto che sia necessario stenderla sotto la donna. Anzi, penso che sia stato molto meglio così. Forse era la pianta o quella luna ma una mano così non si scorda facilmente...».
Tacemmo, ciascuno immaginando la scena, con invidia e ammirazione. Toni si mise a lambire rumorosamente l'acqua del lavatoio, la testa immersa fino alle orecchie nella vasca.
Noi stavamo ad ascoltare come si ascolta un rumore familiare e al contempo arcano. Lo sciaguattio provocato da Toni dondolava i nostri pensieri, donandoci uno stato di delizioso oblio. Mi era capitato altre volte di provare una analoga sensazione guardando le onde del mare o tenendo i piedi immersi in un torrente. Dopo pochi minuti di immobilità concentrata tutto il corpo si scioglieva nell'elemento e nella sua immobile immutabilità. La stessa sensazione mi entrava ora sotto la pelle e mi scorreva negli intestini. Era calma, fiducia, conoscenza. Ma forse anche morte. Sapevo tutto capivo tutto in quell'attimo, mentre le grandi labbra golose di Toni si arricciavano nel piacere della bevuta e il gorgoglio dell'acqua si dimenava davanti a me, danza invisibile, penetrante. Il buio non aveva più segreti. Nulla sarebbe più cambiato, mai: il sonaglio, un particolare sonaglio evocato dalle labbra di Toni, ci stava attirando fatalmente tutti verso un punto prestabilito. Verso un nero granello che non riuscivo a vedere ma di cui intuivo la presenza totale.
Uno starnuto di Toni e un colpo di zoccolo sulla lastra di pietra ruppero l'incantesimo. Sfrigolarono i fiammiferi e tornarono a girare tra noi le paglie. Ma il silenzio persisteva: segno che anche altri avevano sentito la forza del richiamo. Andiamo al ponte, pensai tra me e me, e mi avvidi, con stupore, che le mie labbra avevano formulato, nello stesso istante, ciò che mi era passato per la mente.
«Al ponte?» disse Gino «mi sembra una buona idea».
«Al ponte, al ponte!» Dieci quindici voci bucarono la coltre della notte, sollevate e leggere, come se la mia proposta avesse sciolto di colpo un groviglio di desideri e tensioni confusi e inespressi.
Mentre camminavamo a gruppi, con Toni che seguiva a testa bassa, vidi nel buio un punto che si ingrandiva a mano a mano che ci avvicinavamo alla meta. Il ponte era una scheggia di legno marcio e ferri contorti che un tempo fungeva da passerella tra una riva e l'altra della roggia. Era rimasto lì inutile e patetico. Accanto una garitta con una feritoia obliqua nel suo fianco, come una ferita da taglio che si slabbrava sulla grande scritta mai cancellata. l'aratro che traccia il solco ma è la spada che lo difende.
Ormai eravamo nel regno assoluto del buio. Guardavamo tutti fisso, come attendendo qualcosa, nel compatto muro di nero e di nulla che si ergeva davanti. Fu Toni, per primo, con la strabiliante sensibilità degli animali, ad avvertire la presenza. Nitrì, ma in tono sommesso, come dubbioso di ciò che l'istinto aveva prefigurato ai sensi. Dopo poco sentimmo la voce, sempre più distinta, sempre più vicina.
«Ohi ohi questa storta, maledetta la caterina, ehi il fosso, attento, disgraziato buonannulla, ma perché... cris...».
La voce si fermò di colpo. Poi riprese a fluire dalle labbra invisibili come note fischiettate con stonature disinvolte. «Eccoci qua, ecco arrivato, visto, razza di un santommaso, te lo dicevo io...».
Fu allora che ci vide schierati intorno alla garitta. Si irrigidì nei suoi abiti scuri, il cappello sformato con la tesa abbassata sulla fronte. Appoggiato al braccio destro, quasi protetto dalla nicchia del gomito, teneva un bottiglione. Toni scalpitò. Il suo occhio cieco era dilatato nel nulla, mentre quello buono palpebrava freneticamente.
«Oh oh, buonasera, buonasera a voi» attaccò l'uomo senza scomporsi. «Siamo in tanti qui, non posso invitarvi tutti, mi spiace, la casa è piccola». Era malfermo sulle gambe e faticava a metterci a fuoco.
«Stanco sono stanco e anche un po' brillo, credo. Permesso allora».
Visto che nessuno di noi si muoveva fece due passi verso Toni. Si tolse il cappello e con compunzione gli rivolse la parola: «Vedo che lei è il più anziano, dica ai suoi amici che Carlo Bro... che sono io, in persona, deve ritirarsi, ormai non è più cosa, con questa umidità, le sue ossa, sa ne hanno viste tante, e siccome si dà il caso che Carlo abiti qui, buonanotte».
Toni rimase immobile. L'uomo gli tese il collo del bottiglione: «Se vuole favorire, ah no, esistono anche gli astemi, già... Così posso ritirarmi, allora. Sì? Grazie e buonanotte». Si rimise in testa il cappellaccio. Paolo, movendosi di lato, con un gesto improvviso gli sbarrò la ritirata.
«Vuoi prenderci in giro? Quello è un cavallo, per giunta guercio».
«Cavallo, cavallo, chi lo sa come è il cavallo, quello che sta lassù, naturalmente, nell'iperuranio. Forse parla, già, proprio come i cavalli di Gulliver molto molto più intelligenti di quei poveri esseri pelosi come noi...».
Paolo lo afferrò per il bavero. «Vecchio puzzolente, non ci va di essere menati per il naso».
«Ma, ma, lo sapete anche voi che siete giovanotti educati che un imperatore lo ha anche fatto senatore il suo cavallo... che c'è di male a parlargli insieme... Ma, scusi, noi ci conosciamo? Qua la mano, Carlo, piacere...».
«Sei un vecchio ubriacone schifoso». Il pugno di Paolo lo colpì all'improvviso sul labbro. Sentimmo uno schiocco e il corpo perse l'equilibrio. Ma chissà come, pur barcollando, riuscì a non cadere. Piegato in due l'uomo arretrò di diversi passi, il bottiglione stretto al petto.
«Va bene va bene ha ragione lei, come si chiama, è un generale, un giovanotto dell'ordine, come vuole. Ma che c'è di male se sono quello che sono?»
Si era seduto per terra ora, la testa china sulle ginocchia. Toni annusò l'aria e un fremito gli attraversò il dorso, dal garrese fino alla coda.
«È solo uno schifoso» disse Paolo sputando per terra. «Non c'è neanche gusto...».
«Però è strano, molto strano» fece eco Gino. «Tutte quelle parole... Ma dì, chi sei? Non sei di qui, vero? Perché te la passi in questo modo? Dai, parla...».
«Oh oh». L'uomo sghignazzò mostrando una bocca sguarnita e annerita. «Veniamo tutti dalla stessa parte, di là». Accennò al buio. «E per quanto mi riguarda del resto chi se ne frega...». Prese con due mani il bottiglione e lo portò avidamente alle labbra. «Conosco quelli come voi. E me ne frego. Domani per me è un giorno diverso, diverso eccome. Io mi vesto e gli vado incontro. Lui è vestito e mi addossa. Che stronzata, ma è così, così, porcamadonna. Che volete farci? Non c'è altro da fare. Nient'altro». Scuoteva la testa e pareva posseduto da un suo interno delirio, incomprensibile agli altri.
«Mi sfotti, dì, mi sfotti?» Gino lo afferrò per una manica e lo scosse con furia. «Non adesso, non è cosa adesso, lo capisci? Non devi fare il furbo con me. Non devi».
Sentivo dalla voce che si stava infuriando. Una rabbia fredda, lucida. Nella voce tagliente vibrava quell'ira incontrollata di chi si sente il più forte e non sopporta che gli altri lo ignorino o lo sottovalutino. Dalla bocca sbrecciata uscì un lungo rutto, seguito da alcuni singhiozzi a malapena repressi.
«Ah, è così, a me non dovevi farlo».
In silenzio, senza alcuno sforzo apparente, usando le nocche di punta e di striscio Gino lo bersagliò di pugni ben assestati. La testa dell'uomo ciondolava qua e là, senza un suono, senza un lamento. Alla fine era diventata una maschera di sangue.
«Ehi porco» sibilò Gino «hai ancora voglia di ruttare?»
L'uomo aprì gli occhi tumefatti. «Che cosa fa, che cosa? Vattene al diavolo e lasciami il cavallo, è l'unico essere umano tra voi».
Fece per alzarsi ma un calcio sferrato da chissà chi lo colpì in pieno petto.Ricadde pesantemente ed emise un rantolo. La sua mano sinistra brancicava la terra alla ricerca della preziosa bottiglia.
«Dove sei, dove sei, eccoti, vieni qui luna piena di nettare».
Si lasciò colare il vino sulle labbra e sulla faccia martoriata e mentre beveva a garganella, pareva ridesse. Scosse il vetro e si avvide, dal fiacco sciacquio sul fondo, che la riserva era calata parecchio. Allora puntellandosi sui gomiti si rivolse alle facce che lo attorniavano.
«Adesso o vado a dormire, o devo andare a fare il pieno da qualche parte; così non si può, vi pare?»
Tentò nuovamente di sollevarsi.
«Va a cantarsela il bastardo» mormorò qualcuno.
La pietra che lo colpì in fronte sembrò schiacciarsi sull'osso, tanto ovattato fu il suo rumore. L'uomo gemette di dolore, mentre il sangue sprizzava copioso dalla ferita. Toni fece un passo indietro, mentre l'uomo gli tendeva le braccia.
«E' ancora più buio quaggiù. Ma cosa c'è, chi vi manda? E' lui? Ditelo, su, cosa volete, ha paura, è così, paura che domani gli cada la luce addosso, per sempre... tutto qui? Se è solo questo, ecco qua, prendete, portategliela, cosa mi importa, cosa...». Mise una mano in tasca e tirò fuori un oggetto liscio compatto, freddo anche da lontano.
«Una pistola, ha una pistola» gridò Nicola. «Attenti, è armato quel pidocchio».
Non vidi altro che un corpo fulmineo piombato su quegli abiti scuri sempre più sporchi di terra e di sangue e una mano bianca calpestata e infossata nella terra e l'oggetto lucido lanciato lontano... Poi una voce, la voce di Gino: «Dammi qua l'arnese, ci penso io a metterlo al sicuro». Poi altre mani e piedi e colpi come massi - una gragnuola - lanciati selvaggiamente su un mucchio sempre più informe di cenci.
Le sue ultime parole, un soffio, venivano dalla terra o dal collo della bottiglia, o dal vino sparso sull'erba pesticciata e macerata dalla lotta. «Cavallo, se sei il cavallo, portami via, via...». Qualcuno gli spezzò anche le ultime parole con un calcio vibrato in pieno viso.
«Ecco, adesso non dirà più cazzate». Il tono era tagliente.
D'impulso affondai le mani nella criniera umida di Toni e gli sussurrai all'orecchio: «Toni, Toni, portami via». Il cavallo agitò la testa intelligente, come avesse compreso la mia implorazione. Ma una mano di ferro gli afferrava sadicamente le narici. Toni scalpitò e nitrì penosamente, ma non fece un passo. A un palmo dalla mia faccia vidi scintillare l'occhio azzurro di Gino.
«Vieni» mi disse con un imperio appena smussato «vieni anche tu, poi ce ne andremo».
Braccia spuntate dall'inchiostro trascinavano i poveri stracci verso l'imboccatura della garitta. Movimenti che uscivano e rientravano da quella notte vischiosa e senza fine.
«Ammucchiate dei giornali» ordinò la voce mentre accendeva uno zolfanello. «Ecco fatto: non era niente, solo stracci e merda, è giusto che non resti niente...». La fiamma appiccata ai giornali presto divampò. Il puzzo di stoffa e cuoio e carne bruciata sollevò nell'aria una nube nauseabonda.
Senza accorgermene, non so come, mi trovai nel mezzo della piazza deserta. Solo, Toni, a testa bassa, si allontanava, ben presto non lo vidi più: la sua ombra confusa tra i chiaroscuri del porticato.

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