CULTURA & VISIONI

STORIA DI UN ELABORATO SISTEMA CHE APPROFITTA DELLA LUCE PER CAPTARE I SEGNALI AMBIENTALI

L'occhio vede E IL CUORE DUOLE
PICCOLINO MARCO,

Il tema della visione è di grande interesse nella scienza e nella comunicazione scientifica moderna soprattutto da quando, a partire dalla seconda metà del '900, la neurofisiologia ha completamente ribaltato la concezione che, sulla base dall'analogia tra occhio e macchina fotografica, considerava il processo visivo come finalizzato a generare un'immagine neurale, copia fedele dell'immagine ottica che si forma sulla retina, e a trasmetterla ai centri visivi del cervello per la successiva elaborazione. Sappiamo ora che fin dal primo livello neurale della retina, cioè nei coni e nei bastoncelli, ha inizio una complessa analisi dell'informazione visiva il cui scopo è estrarre gli elementi più ricchi di valore adattativo (quelli che riguardano soprattutto la forma, il movimento e il colore) e trasmettere questa informazione «in parallelo» verso i centri visivi.
Il giornalista e scrittore inglese Simon Ings, autore di Storia naturale dell'occhio scritto nel 2007 e pubblicato di recente in Italia da Einaudi), ha scelto di centrare il suo libro su un aspetto finora poco trattato nella divulgazione scientifica, sebbene di grande interesse, quello della visione come processo evolutivo, ossia come meccanismo che si è sviluppato nel corso della storia della vita sulla terra per permettere agli esseri viventi di trarre profitto dalla luce (quella solare in primo luogo) allo scopo di captare i segnali ambientali e utilizzarli in modo efficace per la sopravvivenza dell'individuo (e della specie).

Tra errori e omissioni
Ings si sofferma con particolare attenzione a considerare le forme più disparate di visione presenti nei vari organismi, dalle strutture relativamente semplici esistenti nelle alghe unicellulari e in grado di operare forme elementari di fototrasduzione, fino agli occhi composti degli artropodi (costituiti da minuscoli occhi elementari o «ommatidi») che esprimono già alcuni sofisticati meccanismi neurali utili per estrarre l'informazione ambientale più significativa (tra questi la cosiddetta «inibizione laterale», importante per la rivelazione dei bordi e dei contorni delle immagini visive). E analizza poi l'occhio dei primati, un organo che per la sua complessità sembrava in grado di sfidare la teoria evolutiva sin dal suo nascere, come lo stesso Darwin riconosceva esplicitamente, probabilmente per giocare d'attacco contro i suoi futuri detrattori. Forse il nucleo concettuale più importante delle considerazioni che Ings elabora in rapporto all'analisi degli svariati meccanismi visivi apparsi nella biosfera è l'idea che lo sviluppo di un sistema visivo sia stata non solo (e non tanto) una conseguenza della spinta evolutiva che portava a rendere le specie animali più complesse dal punto di vista strutturale e funzionale, ma anche (e soprattutto) un fattore esso stesso di evoluzione che ha permesso, e in qualche modo anche guidato, il costituirsi di organismi di grandi dimensioni e in grado di elaborare comportamenti individuali e sociali via via più complessi.
Ma un'idea di questo genere, certamente stimolante e anche nuova (almeno per i non esperti), è sommersa nel libro di Ings in una vero e proprio pot-pourri di sbriciolature tratte da opere di divulgazione scientifica di seconda o terza mano, con errori e omissioni impressionanti per chi abbia una minima conoscenza dello neuroscienze moderne. A dispetto del fatto che in più luoghi del suo libro si sofferma a parlare dell'importanza della comunicazione sociale visiva operata attraverso le espressioni facciali e il gioco dello sguardo, Ings non fa alcun cenno alle ricerche di Rizzolatti e dei suoi collaboratori sui cosiddetti «neuroni specchio», una scoperta che ha rivoluzionato l'intero campo delle neuroscienze, mettendo in evidenza la stretta connessione che esiste tra sistema motorio e sistema sensoriale, soprattutto nei processi della comunicazione. Non fa neppure cenno agli studi importanti che hanno messo in evidenza le ragioni alla base delle relative imperfezioni dei mezzi ottici del nostro occhio (cornea, cristallino), pur sottolineando più volte queste imperfezioni. Non ci dice che se noi avessimo l'ottica perfetta di una macchina fotografica di qualità non solo non riusciremmo a servircene, ma avremmo una visione altamente disturbata da fastidiosi scintillii dovuti al fenomeno dell' «aliasing» (un problema questo ben noto agli ingegneri elettronici che si verifica in un sistema di comunicazione di tipo digitale in presenza di segnali tali da eccedere le sue capacità di codifica e trasmissione dell'informazione).
Ma Ings raggiunge i livelli più bassi della sua scrittura quando tenta di percorrere i sentieri della storia della scienza. Qui il contrasto tra la superficialità delle conoscenze e la perentorietà delle affermazioni lascia davvero perplessi. Chi abbia una minima cognizione della storia della scienza ha un sussulto a sentire designare come «fisico e inventore» e poi semplicemente come «inventore» Samuel Sommering, lo scienziato polacco-tedesco noto soprattutto per i suoi studi sul sistema nervoso (è a lui che si deve la scoperta della «sostanza nera» dalla cui degenerazione deriva il morbo di Parkinson).
Come molti studiosi della sua epoca Sommering era estremamente versatile, e mise tra l'altro a punto un sistema di telegrafia, ma definirlo sic et simpliciter inventore è veramente riduttivo. Quanto poi al «fisico» bisogna scusare Ings perché questa è una delle tante perle introdotte dall'ineffabile traduttrice, che scambia l'originale inglese «physician» (medico) per «physicist» (fisico).

Uno scambio di persona
Si soffre poi - sempre seguendo Ings - nello scoprire che Heinrich Müller (il primo a fornire indicazioni che la trasduzione ha luogo a livello dei fotorecettori della retina, cosa di cui Ings non sembra essere a conoscenza) era maestro di Hermann von Helmholtz. Helmholtz era, in effetti, «allievo prediletto» di Müller, ma non di Heinrich, bensì di Johannes, uno dei più grandi fisiologi della sua era. A proposito di Helmholtz (forse il più eminente scienziato tedesco dell'Ottocento, autore di scoperte fondamentali in molti campi della fisiologia e della fisica) ci si potrebbe forse domandare perché Ings non lo presenti come inventore, avendo, lui sì, inventato uno strumento di fondamentale importanza per la storia della medicina, l'oftalmoscopio, che permette al nostro oculista (ma anche al neurologo e al neurochirurgo) di vedere chiaramente il fondo del nostro occhio e di rivelare così i segni non solo di malattie oculari, ma anche di processi morbosi che interessano il sistema nervoso centrale (e non solo): la retina, la membrana visiva dell'occhio, si forma nel corso dello sviluppo embrionale da un'estroflessione dell'encefalo, ed è quindi una parte integrante del sistema nervoso centrale: anche questo Ings sembra ignorarlo, e persino ignorarlo in modo attivo quando dice che, mentre gli occhi dei cefalopodi sono «estroflessioni del tessuto nervoso», «l'occhio umano si sviluppa a partire da lembi specializzati di pelle».
Tornando a Helmholtz, uno storico della scienza non può non soffrire quando sente designare lo studioso tedesco con un'espressione banalizzante come «un fisiologo che desiderava far carriera nel campo della fisica» (ma non ci può aspettare molto di più da uno che indica Platone come «disilluso politico ateniese» e che, parlando delle fondamentali ricerche di ottica fisiologica di Keplero, non si trattiene dallo scrivere «I Keplero erano matti da legare»).
Ma veniamo a qualcosa che lascia letteralmente esterrefatti. Dopo aver parlato di un importante scienziato italiano del '700, Felice Fontana, e della scoperta a lui attribuita delle fibre nervose Ings, scrive che Fontana «è principalmente ricordato per aver svolto i primi esperimenti di stimolazione del cervello umano. Applicando l'elettricità a specifiche regioni del cervello di esseri umani, Fontana riusciva a provocare interessanti spasmi nei loro volti». Ora, non soltanto Ings ha con tutta probabilità confuso Felice Fontana con Giovanni Aldini, il nipote di Luigi Galvani, che all'inizio dell'800 effettivamente eseguì esperimenti di stimolazione elettrica del cervello di decapitati (e contribuì ad ispirare il Frankenstein di Mary Shelley); ma per di più non resiste alla tentazione di abbandonarsi a una di quelle frasi che servono a vivacizzare la scrittura: «Se Fontana non fosse esistito, la Hammer Films avrebbe dovuto inventarlo». Quanto alla traduzione è certo un peccato veniale che sia reso «visual system» con «sistema visuale» (invece che con l'italianissimo «sistema visivo»); ma veniale non è la scelta di usare ripetutamente «impulso» per tradurre l'inglese «signal», peccando non soltanto per ciò che riguarda l'accuratezza linguistica ma la scienza tout court (e in modo grave) perché così si finisce per attribuire ai coni e ai bastoncelli della retina la capacità di generare impulsi (temine con cui nella neurofisiologia si indica un tipo di segnale elettrico ben preciso).
La conseguenza è, niente meno, che contraddire una delle scoperte più importanti dell'elettrofisiologia visiva del '900.
Il cuore di un italiano poi non può non sanguinare quando legge una lunga citazione di Leonardo non riuscendo a ritrovare la bella lingua del grande toscano. La ragione è presto scoperta: invece di riprendere il passo originale del Trattato della pittura la traduttrice ha semplicemente reso in italiano la citazione inglese. Ma dare tutte le colpe alla traduttrice sarebbe infierire sull'anello più debole della catena produttiva del libro: possibile che non ci sia stato alla casa editrice un redattore, o un consulente editoriale, in grado di dare una lettura, anche rapida, al volume prima di pubblicarlo? Libri così non avvicinano il pubblico alla scienza ma della scienza portano verso il pubblico un'immagine deformata e imprecisa. Personalmente non ho nulla contro la comunicazione scientifica, e penso che ci sono opere tanto di scienziati (per esempio Helmholtz) come di geniali divulgatori (ho in mente soprattutto Arthur Clarke e Olivier Sacks) che possono davvero accendere l'interesse e la passione dei lettori e costituire un forte stimolo intellettuale. In effetti, una grande parte degli scritti di Galileo Galilei, e il Dialogo sopra i Massimi sistemi del Mondo in particolare, può essere considerata opera di comunicazione della scienza, ricca com'è di pagine di straordinario fascino intellettuale oltre che scientifico. Ma con Galileo abbiamo appreso che la scienza è precisione e affidabilità, e non solo per quel che riguarda i dati e le misurazioni sperimentali, ma anche per l'accuratezza espressiva e linguistica su cui essa deve basarsi.
Forti del ricordo di un aneddoto presente nella Recherche di Proust ci viene la tentazione di inviare all'Einaudi una delegazione di nostri autori che, rivolgendosi al direttore editoriale, gli dica qualcosa come: caro direttore, se vuole pubblicare opere di gran valore, scelga pure tra i volumi di eminenti autori stranieri, ma se ha in mente libri mediocri perché disturbarsi tanto (e sprecare soldi in spese per diritti e traduzione): ci siamo qui noi!

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