CONTROPIANO

Il buco di Obama

TONELLO FABRIZIO,

Le campagne elettorali americane si vincono o si perdono sull'economia, o almeno questo è quanto economisti e politologi hanno sempre affermato: inflazione e disoccupazione del 1980 e Carter se ne va, sostituito da Reagan; recessione del 1991-92 e Bush padre se ne va, sostituito da Clinton.
Su questa base, il risultato delle presidenziali di quest'anno dovrebbe essere una vittoria oceanica per i democratici: in dollari costanti, la famiglia media americana guadagna oggi meno che nel 2000 (58.407 dollari contro i 59.398 di allora). La crescita dei posti di lavoro, nell'era Bush, è stata la più lenta degli ultimi sei decenni. Milioni di famiglie americane hanno perso la casa, o stanno per perderla, nel disastro dei mutui facili e, secondo l'economista di Harvard Kenneth Rogoff, alcune grandi banche stanno per fallire, oltre al fatto che i colossi del credito Fannie Mae e Freddie Mac saranno nazionalizzati perché insolventi.
Non si può nemmeno dire che gli americani, intossicati dalla propaganda, non sappiano cosa sta succedendo: l'80% di loro pensa che l'economia stia andando male e il 70% è convinto che il peggio debba ancora venire. Il New York Times Magazine in edicola domani scrive che «anche dopo che la crisi sarà passata, il problema più grave, quello della stagnazione dei redditi, rimarrà». Insomma, gli ingredienti per una svolta politica che porti con sé un'inversione di rotta delle politiche economiche degli ultimi 8 anni sembrano esserci tutti. E invece, che succede?
Succede che i democratici hanno fatto fin qui una campagna elettorale «letargica» in materia di economia, come scrive l'economista Paul Krugman. Le proposte di Obama sembrano un potpourri di slogan clintoniani («sostenere la classe media»), concessioni ai sindacati («penalizzare le aziende che trasferiscono posti di lavoro all'estero») e vere e proprie improvvisazioni (una tassa sui superprofitti delle compagnie petrolifere). Negli ultimissimi giorni sono apparsi alcuni spot televisivi più aggressivi, in particolare uno che mette insieme le dichiarazioni di cittadini qualunque sulle difficoltà quotidiane con le numerose dichiarazioni ottimistiche di McCain sullo stato dell'economia. La conclusione è: «Come farà un eventuale presidente John McCain a risanare l'economia se non è convinto che vada male?»
Il problema è che non basterà uno spot azzeccato per rimettere in moto quella che Krugman definisce una campagna «priva di passione» sul terreno dell'economia. Forse occorerebbe invece chiedersi perché un candidato che ispira le folle quando parla del sogno americano, o della necessità di riformare la politica, sia così afasico quando dovrebbe parlare di salari, di mutui, di prezzo della benzina. Non sarà che Obama è affetto dalla stessa malattia della sinistra europea, così terrorizzata di apparire «statalista» da proporsi come campione delle liberalizzazioni proprio quando il modello della deregulation ha fornito le prove più convincenti delle sue difficoltà?
Per scoprirlo, è bene ripercorrere il curriculum di studi, e di insegnamento, del giovane Obama, che è un prodotto della facoltà di legge di Chicago e quindi ha respirato per una decina d'anni le teorie di Milton Friedman. Naturalmente questo non significa che il candidato democratico sia un incondizionato fautore del liberismo economico ma certo è più filo-mercato di molti suoi compagni di partito. Una foto di qualche tempo fa con i suoi consiglieri economici mostra parecchie facce note: dall'ex ministro del Tesoro di Clinton Larry Summers, all'ex presidente della Federal Reserve Paul Volcker, a Jason Furman, un protetto di Robert Rubin, l'ex banchiere di Goldman Sachs anche lui passato all'amministrazione Clinton. Un gruppo che non comprende nessun ideologo conservatore ma neppure nessuna faccia nuova, ancor meno una qualche teoria economica nuova.
Insomma, Obama è un democratico centrista paragonabile a Clinton, con qualche attenzione in più alla gravità della situazione: se eletto, il disastro che erediterà entrando in carica il prossimo 20 gennaio sarà il peggiore dai tempi di Franklin Roosevelt, senza contare il fatto che, qualunque cosa faccia, nei primi mesi la situazione continuerà a peggiorare.
Tuttavia, prima di preoccuparsi dei fatidici «100 giorni» dopo il giuramento, Obama deve decidere cosa fare per essere eletto, in particolare dando delle risposte alle richieste più urgenti dei cittadini a basso reddito: la recessione e il prezzo della benzina.
Fin qui il candidato democratico non ha detto granché e questo ha permesso a McCain di migliorare le sue posizioni nei sondaggi con una proposta tutta di marca Big Oil come quella sul riprendere le esplorazioni alla ricerca di petrolio nelle acque territoriali americane. Benché le trivellazioni al largo della California o dell'Alaska non possano evidentemente dare alcun risultato nel breve periodo (sono passati i tempi quando si faceva un buco in Texas e ne schizzava l'oro nero) i repubblicani sono riusciti ad apparire più convincenti dei democratici in questa materia, presentando la faccenda come una panacea per la sicurezza nazionale (petrolio «americano» invece che straniero) e, nello stesso tempo, un beneficio per i consumatori.
Se un trucchetto da quattro soldi come questo è bastato per mettere in difficoltà Obama viene da chiedersi cosa farà il candidato democratico nelle prossime, decisive, dieci settimane. Il suo piano di riduzioni fiscali per gli americani che guadagnano meno di 250mila dollari l'anno dovrebbe essere popolare ma, per il momento, non è riuscito a convincere l'opinione pubblica.

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