Poteva iniziare male l'approccio con la psichiatria di un imprenditore che chiameremo Davide e che vive a Is Mirrionis, il quartiere di Cagliari affacciato sullo stagno dei fenicotteri rosa. C'erano tutte le premesse per un Tso, il trattamento sanitario obbligatorio previsto dalla legge 180, e poteva essere un Tso brutale come quello, raccontato qui a fianco, che due anni fa costò la vita a Giuseppe Casu. Nelle due storie si vede il clima, e la posta in gioco, del processo di trasformazione delle politiche sanitarie che da quattro anni ha preso avvio in Sardegna, caso pressoché unico in trent'anni di "180". Il governo regionale ha infatti deciso di interrompere, con risorse nuove e scelte di indirizzo, la prassi finora seguita dalle amministrazioni, pure di colore diverso: gestire l'esistente com'era andato configurandosi, buoni o cattivi servizi a seconda di scelte o inerzie locali. Rinunciare a intervenire sullo scarto, a volte gravissimo, tra le leggi e le pratiche, è un costume diffuso tra gli assessori regionali, che spesso sembrano pensarsi più come amministratori di condominio che come politici. Il perché, dalla Sardegna lo si capisce bene: insieme a consensi, speranze e partecipazione al cambiamento, il presidente Soru e l'assessora Dirindin stanno raccogliendo opposizioni talvolta rabbiose e la resistenza cinica di chi aspetta il voto del prossimo anno, che potrebbe cambiare il governo e riportare tutto nei ranghi.
Il lungo incontro tra Davide e il Centro di Salute Mentale (Csm) di Cagliari Ovest è un buon esempio del nuovo indirizzo e dei problemi con cui si misura.
Un uomo braccato
Un mattino dello scorso maggio, un medico di base telefona al centro chiedendo il Tso per un suo paziente, «barricato» nell'azienda di famiglia. Al centro capiscono che in realtà il medico non ha mai visto l'uomo, avendo in cura solo alcuni familiari. Così chiamano a casa di Davide e parlano con sua moglie, che è molto agitata e piange disperatamente. Davide sta male da tempo, lei si era rivolta a uno psichiatra privato che aveva suggerito di mettere psicofarmaci di nascosto nell'alcool, che Davide beve troppo spesso. Lei non se l'era sentita, ma stanotte Davide non era rientrato e ora, ubriaco, minacciava i familiari che avevano chiamato i carabinieri. «Quando siamo arrivati - racconta Sandro Montisci, lo psichiatria che dirige il centro - la strada era completamente bloccata: c'era un'ambulanza del 118 con cinque operatori, un'Alfa dei carabinieri, un gruppo di curiosi e, dentro, altri due carabinieri con la moglie di Davide, suo fratello e l'avvocato di famiglia». Davide - quasi cinquant'anni, alto, forte, solo un po' appesantito - non ne vuole sapere di operatori psichiatrici ma cerca, nello stesso tempo, di tirarli dalla sua parte: «Lo vedete, io sto bene, questo è il mio ufficio, loro mi rovinano svergognandomi di fronte a tutti». Intanto continua a bere e a sfottere i carabinieri, ormai spazientiti anche perché, in casi simili, d'abitudine si ammanetta la persona, la si carica sull'ambulanza e via al servizio psichiatrico di diagnosi e cura (Spdc). Così, mentre gli operatori parlano col fratello di Davide e con l'avvocato che vorrebbe interdirlo, il fragile equilibrio si spezza: Davide fa per uscire sbraitando, i carabinieri lo atterrano, cercano di ammanettarlo dietro la schiena, lui si dimena gridando che gli storcono un dito, riesce a divincolarsi con una manetta ancora la polso, arriva un'altra pattuglia, che riesce infine ad ammanettarlo. Ma effettivamente il dito è gonfio, forse fratturato. Montisci chiede che a Davide vengano tolte le manette, il dito viene tamponato col ghiaccio, i carabinieri a questo punto sono imbarazzati, si trova un compromesso: Davide andrà in ospedale per farsi curare il dito, ma con gli operatori del centro e nella loro macchina, che parte scortata dai carabinieri a sirene spiegate. Non ci sarà ricovero né Tso: dopo l'intervento in ortopedia, Davide accetta di andare al Csm e inizia così la lunga, difficile tessitura di un rapporto di fiducia tra lui e gli operatori. Nelle settimane successive, questo rapporto verrà costantemente contraddetto e riformulato, attraverso incontri quotidiani in cui entrano in gioco anche i familiari di Davide e qualche amico, e man mano che il quadro dei problemi si chiarisce, emerge in tutta la sua complicatezza la vita di quest'uomo brillante che si sente in scacco, e cerca una via d'uscita in tutte le bevande alcoliche possibili.
La vita, roba da matti
Andare dove è scoppiata la crisi: questo modo di lavorare, che a un profano appare semplicemente ragionevole, è invece fortemente ostacolato dal modello organizzativo che è andato imponendosi nei servizi di salute mentale, qui a Cagliari come in molte parti d'Italia. L'emergenza, la crisi, le situazioni drammatiche, insomma, sono lasciate al 118 e a carabinieri e polizia, anche quando non ci sono armi né violenze: in questa organizzazione, se dai di matto sei comunque socialmente pericoloso, in barba alla legge e anche all'evidenza. Spesso, i Csm si limitano a inviare quel certificato che il medico di Davide si aspettava e il servizio ospedaliero diventa così del tutto simile all'accettazione del manicomio: ricettacolo di tutte le crisi raccolte da operatori che di disturbi mentali non ne sanno nulla, un ospedale psichiatrico in miniatura che fa cura e custodia insieme. «La contenzione, l'abuso di psicofarmaci, le porte chiuse, il cattivo uso del Tso non riguardano solo il servizio ospedaliero che adotta queste pratiche, ma sono problemi di tutto il dipartimento di salute mentale (Dsm)», puntualizza Giovanna Del Giudice, che ha lavorato a Trieste e ad Aversa ed è arrivata qui all'interno del programma di collaborazione tra Sardegna e Friuli-Venezia Giulia, e dirige oggi il Dsm della Asl 8 di Cagliari. «Occorre modificare anche l'organizzazione e la cultura dei centri per togliere terreno a queste pratiche».
Basta varcare la soglia di un Csm per capire come lavora: spesso, è solo una serie di stanze chiuse in cui ciascun medico e psicologo vede su appuntamento i pazienti che accettano la terapia, in gran parte persone che hanno disturbi non gravi o che non disturbano il mondo in cui vivono. «I Csm incoraggiano la tendenza di questi tempi a psichiatrizzare i fatti della vita, le crisi coniugali, i rapporti coi figli, la mezza età, le difficoltà nel lavoro», osserva Del Giudice, « e appena il problema diventa ingestibile con la visita su appuntamento, spunta il ricovero come unica modalità di presa in carico forte», anche quando non è detto che sia la risposta giusta. «Nel caso di Davide, spiega Montisci, non c'era necessità di quell' urgente intervento che fonda il Tso. Che Davide fosse diffidente verso di noi era comprensibile, stava a noi dimostrargli che potevamo aiutarlo. In realtà, la cosa più pesante di quella lunga mattinata è stata la pressione forte, di tutti, per il ricovero forzato, che qui è l'abitudine».
Psichiatri da ricovero
Questa abitudine è stata consolidata da un modello organizzativo che trova consenso tra gli psichiatri anche perché sembra rendere il loro lavoro più simile a quello degli altri medici: l'ospedale come santuario della cura, gli ambulatori territoriali che sbrigano trattamenti leggeri e controlli post ricovero, in una divisione del lavoro che in realtà mostra la sua inefficienza e inefficacia anche in altre aree della medicina, specie quelle che hanno a che fare con disturbi di lunga durata. La legge di riforma sanitaria, la 833 del '78, e poi il "patto per la salute" predisposto venticinque anni dopo dalla ministra Bindi col piano sanitario nazionale, e infine la legge n.328 del 2000 sulla riorganizzazione dei servizi sociali, hanno cercato di correggere le distorsioni e gli sprechi di una sanità incentrata sull'ospedale, e hanno certamente favorito la nascita di sistemi locali di eccellenza, ma hanno inciso troppo poco nel sistema complessivo, e anzi l'ingresso alla grande dell'ospedalità privata ne ha accentuato i mali antichi e noti. Un po' come con la "180": è ampiamente dimostrato che l'istituzionalizzazione fa male e che i sistemi di cura senza custodia sono più efficaci ed efficienti, ma le politiche regionali sembrano andare da un'altra parte, o stanno a guardare, pressate dagli appetiti del privato e timorose di aprire scontri con gran parte delle potenti organizzazioni dei sanitari, medici ma non solo. Alla fine, la politica tende a tornare sui suoi passi, come con i tassisti, solo che il prezzo che si paga in sanità è molto più alto.
In questo quadro, la regione sarda è un laboratorio di straordinario interesse. «Il cambiamento lo vediamo», dice Gisella Trincas, presidente della più importante rete di associazione di familiari, l'Unasam, 150 sedi in tutta Italia. «Cinque milioni di euro in più per la salute mentale e il 12 % in più di personale, i Tso diminuiscono, specie quelli ripetuti, i ricoveri nel privato e fuori regione sono scesi dell'8%, rientrano i ricoverati dai manicomi giudiziari: la nostra era la regione che ne inviava di più». A Cagliari, in particolare, 7 Csm sono aperti 12 ore al giorno, un nuovo Csm con quattro posti letto è aperto 24 ore, sono nati gruppi di convivenza assistiti al posto dei ricoveri in istituti privati, è stato riorganizzato l'Spdc del SS. Trinità, dove da alcuni mesi non si fanno più contenzioni. «È stato duro ripartire - commenta Alba Corona, che dirige da molti anni il Dsm di Sassari - ma è stata una grossa liberazione, specie per chi di noi aveva investito nella chiusura dei manicomi. Ora abbiamo ricominciato a discutere, finalmente si può andare un po' più in là, ad affrontare la scommessa vera della salute mentale».
(in collaborazione con Daniele Pulino)
Foto: 5 MILIONI DI EURO in più
per la salute mentale stanziati dalla Regione Sardegna. Finanziamenti
che hanno permesso di incrementare del 12% il personale dei servizi territoriali: ridotto il numero di Tso