INTERNAZIONALE

Un modello di sviluppo alla corda Democratizzare il governo globale

ANALISI
MARTONE FRANCESCO

«Le grandi teorie economiche raramente durano più di qualche decennio. Alcune, se sono particolarmente affini ad eventi politici o progressi tecnologici, possono arrivare a sopravvivere mezzo secolo. (...) Certamente le grandi ideologie raramente scompaiono da un giorno all'altro. Ma i segni del declino sono chiari, e dal 1995 questi segnali si sono moltiplicati, uno dietro l'altro, trasformando una situazione già confusa in un collasso».
Così scriveva nel 2005 l'intellettuale canadese John Ralston Saul, nel suo «The Collapse of Globalism, and the reinvention of the world». Secondo Saul assisteremo ancora per qualche anno a processi ormai inadeguati alle sfide globali, quali Davos ed il G8. Così in effetti è. Da Gleneagles a Heligendamm a Tokyo sembra che questa formula sia ormai giunta al capolinea.
Oggi in Giappone si fa un doppio passo indietro rispetto agli impegni presi a Gleneagles sulla lotta alla povertà in Africa. Il Commissario Barroso annuncia un Fondo di un miliardo di euro per sostenere l'agricoltura su piccola scala, ma finge d'ignorare che l'agenda commerciale aggressiva dell'Unione verso gli stessi destinatari pregiudicherebbe la sovranità alimentare.
La questione della coerenza non è solo fatto puramente accademico. Mentre ci si affretta a sancire l'irrilevanza e l'inadeguatezza del G8, quegli stessi governi riescono ad eludere le proprie responsabilità, lasciandosi dietro una scia altrettanto pericolosa per il futuro.
Di fronte all'incapacità di trovare percorsi di azione condivisi e di alto livello, gli 8 «grandi» scaricano altrove il burden, il peso delle scelte, facendo di alcune istituzioni gli strumenti dei propri interessi, mentre questi dovrebbero invece essere luogo di condivisione equa degli oneri tra tutti i membri della comunità internazionale. Quindi alla Banca mondiale il compito di dettare i termini del post-Kyoto (cioè le politiche necessarie a contrastare il cambiamento del clima)) attraverso i fondi di «sviluppo pulito» (ossimoro che nasconde l'insidia del carbone e dei mercati di «permessi di emissione»); ai paesi produttori di cibo l'onere di abbattere le restrizioni all'esportazione. O di riempire i nostri serbatoi di carburante, magari «agro» (o «bio», come preferiscono benignamente chiamarlo).
Più che illegittimo o incapace, questo consesso di governi dimostra di non avere le chiavi di lettura della realtà dopo la fine della sbornia neoliberista. Guai però a usare questo pretesto per licenziare quei governi dalle loro responsabilità e dagli impegni presi. Guai anche a credere che un'iniezione di denaro riesca a sedare un'economia malata e le convulsioni di un modello di sviluppo ormai alla corda.
Se il Giappone decide di lanciare il proprio piano Marshall per l'Africa, la cosiddetta Ticad IV, in alternativa alla Cina, mentre l'Assemblea generale delle Nazioni Unite svolge una valutazione sugli stessi temi, allora ci si trova di fronte ad un grave scollamento, che delegittima ancor di più le Nazioni Unite.
Come uscirne? Non certo aspettandosi dai G8 che producano cure per le loro malattie. Potrebbe essere però utile riconsiderare alcune proposte di democratizzazione dei processi di governo globale. Piuttosto che allargare il G8 ai paesi cosiddetti 05 («Outreach Five»: Messico, Brasile, Cina, India, e Sud Africa che con la Russia compongono il gruppo dei Bric-Sam, acronimo formato dalle iniziali rispettive), in un approccio simile alla «Coalition of the Willing», si potrebbe investire il Comitato Economico e Sociale dell'Onu del ruolo di aggregatore del cosiddetto L20.
Ovvero i leader di 20 paesi Ecosoc rappresentativi delle varie regioni e blocchi economici, a rotazione.
Il limite di queste proposte è che riguardano esclusivamente i governi, tralasciando gli altri attori della governance. Un'altra proposta è stata di recente formulata da un delegato cileno, Eduardo Galvez, durante i lavori preparatori alla Conferenza di Doha su Finanza per lo Sviluppo (FfD + 5), che si terrà dopo l'estate. Galvez ipotizza che quel processo esclusivamente negoziale si trasformi in un percorso plurale nel quale i vari attori della governance globale abbiano uno spazio comune di discussione e impegno sui temi dello sviluppo e dei beni pubblici globali.
Non c'è tempo da perdere, per evitare di lasciare spazio a chi (basta leggere l'ultimo saggio di Richard Haas «The Age of Nonpolarity», Foreign Affairs, Aprile 2008) annunciando l'era del mondo "non-polare" ritiene che alle vecchie istituzioni internazionali si possa sostituire un multilateralismo à la carte, sempre a uso e convenienza degli interessi dei paesi più ricchi e potenti.

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