Inizia a Milano, con le parole di Alice Banfi legata al letto di contenzione nel servizio psichiatrico del Niguarda e con quelle del direttore di questo servizio, lo psichiatra Leo Nahon, la nostra inchiesta sulla psichiatria italiana a trent'anni dalla «180», la legge che ha stabilito di chiudere i manicomi per sostituirli con sistemi di cura senza custodia. Una domanda alla base: cosa succede oggi alle persone che vivono una sofferenza mentale troppo pesante per loro e i familiari, magari accompagnata da aggressività, delirio, rifiuto delle cure, elementi che un tempo conducevano dritti in ospedale psichiatrico?
La 180 voleva indurre la psichiatria a tenere insieme cura e diritti, e inventare perciò servizi capaci di responsabilità, verso la persona malata e il suo ambiente, e anche di rispetto per la dignità e la libertà del cittadino malato. Non si trattava, quindi, di promuovere questo o quell'approccio terapeutico ma di indurre un settore della sanità pubblica e dei suoi addetti a cambiare mentalità e organizzazione, per affrontare altrimenti i problemi che da due secoli erano stati consegnati all'ospedale psichiatrico. Ma c'è ben poco di nuovo se guardiamo alla psichiatria post riforma attraverso l'esperienza di Alice e della sua famiglia.
Da un lato un servizio ospedaliero che macina una enorme quantità di ricoveri brevi, dall'altro un servizio territoriale che fa quasi solo visite ambulatoriali distanziate una o più settimane: è evidente che il maggior peso grava sul reparto, che diventa un concentrato di crisi, angoscioso per chi vi lavora e angosciante per chi ci arriva. Se i servizi territoriali sono fragili, i ricoveri sono reiterati: già all'inizio degli anni '70 gli inglesi lo chiamavano «revolving doors», sistema delle porte girevoli, ed era chiaro che non poteva né abolire quelle tecniche che Nahon definisce «indifendibili», né fare a meno di un luogo di internamento. Nell'Italia che ha chiuso gli ospedali psichiatrici, questo luogo si trova nel variegato mondo del privato convenzionato: comunità non sempre buone come quella che Alice ha incontrato, cliniche private che spesso sono parcheggi di lungodegenza, «residenze assistite» di tipo più o meno sanitario o assistenziale. La Lombardia è un esempio clamoroso di questa rendita di posizione che il privato trae dalle insufficienze del servizio pubblico, o meglio dal fatto che le politiche regionali pongono il pubblico in condizione di costante emergenza (nei reparti ospedalieri ) e crescente povertà di mezzi (nei servizi territoriali).
Non tutta la Lombardia va in questa direzione: la prossima puntata dell'inchiesta sarà sui servizi di salute mentale di Mantova visti attraverso la storia di Gianna, che ha sfidato la psichiatria non meno di Alice ricevendo, però, risposte ben diverse da un sistema interamente pubblico che ha saputo trasformarsi. Ma tra Mantova e Milano le politiche regionali hanno nettamente scelto il secondo modello, in una logica di «deregulation» che, dal 1997, ha portato all'abolizione dell'ufficio regionale salute mentale, delegando a ciascuna Asl la gestione dei rapporti tra pubblico e privato. Nessuna inchiesta giudiziaria ha finora denunciato, in psichiatria, casi come quelli della clinica Santa Rita, ma da decenni le associazioni di familiari e di utenti della regione denunciano le «morti civili» che si consumano in questo sistema. Qui, come in gran parte d'Italia, sembra prevalere chi non è stato capace di innovazione alcuna, né nel pubblico, di cui la Asl del Niguarda è esemplare, né nel privato, che in gran parte offre solo posti letto, in grado di assicurare profitti assai maggiori di quei servizi ad «alta tecnologia umana» che sono nati da tempo nella psichiatria pubblica, costruendo uno zoccolo di consenso senza il quale la riforma non avrebbe compiuto trent'anni.
In quale direzione andranno le politiche regionali nel futuro prossimo? I cattivi segnali non mancano, e tra questi il disegno di legge n. 348, ancora non incluso nel calendario dei lavori, presentato il 6 maggio da tre senatori del Popolo delle Libertà (Carrara, Colli e Bianconi). Gli obiettivi sono chiari: ridurre le garanzie del trattamento sanitario obbligatorio, prolungarne i tempi, consentirlo nel privato. Un premio a chi fa affari sulla malattia e ha ben pochi successi da vantare.