CONTROPIANO

Alice oltre lo specchio

GIANNICHEDDA MARIA GRAZIA,

«Fui legata, come al solito. Fascette mani e piedi, nastro adesivo per stringerle ai miei polsi sottili. Più tardi, mi sarei contorta a rosicchiare lo scotch fino liberarmi una mano, poi l'altra, infine, con più fatica, i piedi. Ma mi legavano di nuovo. Prima con un'aggiunta di scotch e garze adesive, poi, se ancora mi slegavo, con lo "spallaccio". Lo spallaccio è un lenzuolo arrotolato, passato dietro la testa, sulle spalle e poi sotto le ascelle, che viene legato dietro e sotto la spalliera del letto da due infermieri. Il nodo viene bagnato con un'intera bottiglia d'acqua, così che non si possa sciogliere. Con lo spallaccio tutto il corpo è immobilizzato, il busto aderente al materasso, le mani e i piedi bloccati dalle fascette: com'essere in croce. Il giorno dopo avevo i lividi sotto le ascelle e il collo che mi doleva. Mi avevano anche sedato, naturalmente, e semiaddormentata diventavo docile come un agnellino, senza più rabbia».
Tra il 2001 e il 2003 questo è accaduto molte volte nel Spdc, il servizio psichiatrico di diagnosi e cura, dell'ospedale Niguarda, a Milano. Lo racconta Alice Banfi nel suo libro appena uscito, Tanto scappo lo stesso (Stampa Alternativa, 117 pagine, 10 euro). Alice ha ventinove anni, è stata ricoverata in 13 diversi reparti e cliniche psichiatriche lombarde, «una peggio dell'altra», non ha mai smesso di dipingere, oggi viaggia e scrive per il Forum salute mentale, una rete di associazioni di operatori, familiari, utenti e studenti di cui fa parte. I suoi interventi, lucidi e ironici come la sua scrittura, illustrano bene come lavora e pensa quella gran parte della psichiatria che sembra incapace di abbandonare l'armamentario e la cultura del manicomio.
I problemi cominciano quando Alice è ancora bambina, si dà pugni sul naso fino a sanguinare, poi da adolescente smette di mangiare fino a pesare ventotto chili, oppure mangia smodatamente e vomita, e si mette anche a bere fino a rovinarsi il fegato. «Volevo una cura per la fame», e così arriva da una psichiatra che le diagnostica un "disturbo borderline della personalità" e le prescrive il Prozac, fino a tre compresse da 30mg al giorno. «Nel giro di un mese ero fuori come un balcone, tremavo, sempre su di giri, come drogata». Dopo un primo ricovero in una clinica milanese viene portata al Niguarda. «Quando ho visto il reparto volevo morire: muri grigiastri scrostati, il televisore fuori uso nella stanza comune, persone che andavano avanti e indietro di continuo con la sigaretta in bocca, urla da una stanza, gli infermieri chiusi dietro la porta, e quell'orologio pazzesco, che nei due quadranti segnava sempre ore diverse quando non era fermo».
Sono così gran parte degli Spdc lombardi, spesso confinati in spazi angusti e disagevoli dal disinteresse dell'amministrazione sanitaria ma anche dall'incomprensibile incuria, o dall'accettata impotenza, dei dirigenti psichiatri: «ma come si fa a lavorare in un posto così», commenta Alice, «come si fa a non capire che chi sta male lì si sente ancora peggio?».
Alice comincia così una sequenza di ricoveri, tutti volontari, nei quali avvia un gioco al massacro di se stessa che viene paradossalmente alimentato dal servizio, che instaura con lei una sorta di braccio di ferro per domare la sua aggressività, proprio come accadeva in manicomio, e con gli stessi esiti distruttivi. Alice infatti alza sempre la posta: diventa esperta nel nascondere dappertutto le lamette con cui si taglia braccia e collo, a volte fino a rischiare la vita, chiusa in bagno con i polsi nell'acqua calda; si ubriaca, scappa, si fa riprendere e poi scappa di nuovo, e ogni volta viene contenuta e sedata. «Dopo essere stata contenuta non so più quante volte, mi convinsi che quella era la cura. Cominciai a chiedere io di legarmi al letto, non per molto, solo tre, quattro ore al giorno, verso le sei di sera, quando mi sentivo più insofferente e mi veniva voglia di fuggire, di bere. Allora mi sdraiavo sul letto e mi facevo legare mani e piedi... Oggi mi domando com'è possibile che i medici non capissero niente dei miei meccanismi, dei miei schemi autolesivi a cui davano corda, del mio malessere che hanno cercato solo di reprimere».
Alice sa bene che, «se ci fosse stato il manicomio, a un certo punto mi ci avrebbero rinchiusa buttando via la chiave». La sua storia invece è rimasta aperta, anche se con uno spreco drammatico di risorse umane ed economiche. «Mi domando a cosa servano i Cps (centro psico-sociale è il nome lombardo dei centri di salute mentale). Dopo ogni ricovero ci andavo per un po', ma con una seduta di psicoterapia ogni quindici venti giorni, e farmaci in dosi da cavallo che mi industriavo a non prendere, ricadevo subito nel vuoto, al punto di prima, e mi facevo ricoverare».
La via d'uscita da questo sistema perverso, che riesce insieme a reprimere le persone e ad abbandonarle, diventa una comunità convenzionata, «Il porto» di Moncalieri ( Torino) che Alice ha scelto e dove finalmente il suo malessere viene accolto. Anche questa parte della storia è tutt'altro che lineare. Il percorso di risalita, che dura due anni e mezzo, è segnato da fughe, taglie, crisi e ricoveri in Spdc. Ma il reparto psichiatrico di Novara dove a un certo punto viene ricoverata ha le porte aperte, non usa mezzi di contenzione, non stronca le crisi coi farmaci. Così Alice si trova spiazzata da infermieri che le stanno vicini a turno quando rabbia e angoscia montano in un modo che lei sente irrefrenabile, e quando una volta scardina la finestra per scappare, gli infermieri le vanno dietro, le fanno notare che poteva uscire dalla porta aperta, parlano con lei e, per la prima volta in un Spdc, non la legano affatto, né la inebetiscono.
«Dopo la comunità sono andata a vivere con mia madre a Camogli, dove sono riuscita a integrarmi. Certo, mi è capitato di inciampare su me stessa centinaia di volte, di nuovo ho incontrato un servizio territoriale che mi ha detto sei troppo grave, non ce la facciamo a seguirti, cosa che invece fa un medico privato che mi aiuta anche coi farmaci, ma in dosi umane, e discutendone con me. Ho una piccola galleria sul lungomare, e finalmente dipingo col vento in faccia».

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